ilraccontodelmesedimaggio2013
Maltempo
Si poteva trattare di questo: uno di quegli espedienti inventati per facilitare la vita domestica. Mentre veniva introdotto nella veranda dall’infermiera – come si chiamava? questa era nuova, ma tanto ormai gliene cambiavano una a settimana – la porta a vetri si aprì davanti a loro con un ronzio sommesso: contemporaneamente il volume della tv schizzò in alto. Le due cose potevano essere collegate. Luis stabilì che non averlo avvisato era stato un atto di pura maleducazione, ma non disse nulla. Avvertì l’ingiustizia della situazione con la rassegnazione di chi è ben conscio di avere perso ormai ogni controllo sulle cose. Una voce femminile cercò di sovrastare il baccano che prorompeva dal televisore. Luis si voltò quel tanto che la sua condizione gli consentiva, ma fece in tempo a cogliere solo qualche parola: sceneggiato, puntata, perduta.
– Che hai detto? – interrogò l’infermiera. La ragazza gli mise una mano sulla spalla mentre si abbassò per parlargli a pochi centimetri dall’orecchio. Lui ne sentì il calore da sotto il tessuto della camicia. E la presa: non particolarmente forte, ma inconsueta. Come se tentasse di inviargli un segnale. In questo momento non sono in grado di ricevere visite, tesoro, ridacchiò fra sé. Sembrò che lei gli avesse letto nel cervello, perché ritrasse la mano di scatto.
– Zignioooora dice che non ricordata accendere tv e così perso puntata suo scenegiato – riferì d’un fiato.
Ewa, doveva chiamarsi Ewa. Luis si domandò da quale regione della Polonia venisse. Era certo di averglielo già chiesto, per cui si guardò bene dal riformulare nuovamente la domanda. Anche l’infermiera precedente era polacca, si chiamava Franziska, Franciszka o qualcosa del genere, ma a differenza di questa qui parlava un italiano eccellente, praticamente senza inflessioni. Franziska o come diavolo si chiamava perciò era di gran lunga l’infermiera a cui lui avesse assegnato il punteggio più alto nella classifica del suo personale gradimento, oltre al fatto che non lo obbligava a prendere il consueto chilo–e–mezzo di pillole al giorno e al contrario di Ewa era di una bellezza veramente notevole. Per di più veniva da Danzica, città in cui il nonno di Luis aveva vissuto per quarant’anni facendo il carpentiere. Il vecchio era emigrato da un paesino del Tirolo sul finire dell’Ottocento. Ora, perché diamine uno scegliesse di emigrare in Polonia per cercare fortuna, questo Luis proprio non se lo spiegava.
– Oh. – commentò Luis, lasciando ricadere il capo fra i poggiatesta della carrozzina. Fece passare qualche secondo, cosa che gli consentì di deglutire a fatica. Poi urlò:
– CHE TE NE FAI DI SAPERE COME PROCEDE LA STORIA? – deglutì ancora – Lo sai che non finirà mai. Nessuno si sogna più di scrivere una storia con una fine, oggi. Troppo facile, quando si conosce già la fine di tutte le storie…
Ma Ewa era una donna probabilmente avvezza a ogni intemperie. Lo parcheggiò in veranda: l'aria fresca della mattina di inizio estate lo investì in pieno: era fuori, fuori, fuori. Aria aria aria! Uno spiraglio di sole bucava l'ammasso di nubi e cadeva obliquamente sul pavimento di piastrelle marroni sollevando spirali di polvere fra le grandi azalee e i gerani, sotto cui erano stati ammonticchiati alcuni plichi di vecchie carte. Charlie, il vecchio siamese castrato, sonnecchiava su una poltroncina sfondata di raso celeste. Dal giardino di sotto arrivava un fastidioso odore di legna bruciata. Luis allargò ugualmente le narici. Inspirò profondamente. La veranda stava al secondo piano della casa. Il giardino confinava con un boschetto selvatico, un intrico di arbusti e rampicanti che declinava verso una piccola forra, da cui proveniva lo scroscio di una cascatella. Molto più lontano, dal fondovalle, arrivavano invece i soliti rumori della zona industriale, oltre a una sirena intermittente e acuta che Luis non aveva mai sentito prima. Sembrava un allarme, forse di un'auto.
La moglie lo raggiunse mentre tentava di scrollare dal mento un insetto che gli stava camminando nella barba.
– Non mi piace, Luis.
– Che cosa non ti piace, Anna? – ormai l’insetto gli stava entrando in un orecchio. Sentì che l’infermiera indietreggiò di un passo. La voce stridula di suo figlio Bernardo annaspò alla ricerca di un saluto. Aveva quattordici anni e da pochi giorni aveva stabilito che quella era l’età giusta per sabotare la propria esistenza. Il ragazzo sfilò accanto a loro, senza neanche guardarli, e sprofondò nella sedia a sdraio, allineando i piedi sul tavolino basso dove Anna tentava di coltivare con scarso successo una cassetta di erbe aromatiche.
– Questo tempo. Mi dà sui nervi.
– Il tempo cosa?
– TUT–TO QUE–STO MAL–TEM–PO, Luis. E spegni quel coso Franci!
– Ewa. Questa si chiama Ewa.
L'infermiera farfugliò che non capiva e non si mosse. I passi pesanti di sua moglie: improvvisamente il fragore della tv cessò. Quando tornò da lui, Anna sembrò in preda a una calma tragica. Come di chi abbia appena compiuto un delitto e assapori la macabra consapevolezza del proprio destino.
– Questa domenica voglio andare su al passo – borbottò.
– Vuoi andare dove, Luis? – Adesso Anna si era messa in ginocchio davanti a lui, con i gomiti appoggiati sulle sue gambe. Poteva sembrare un quadretto romantico, ma lo sguardo di lei lampeggiava. Ma che aveva di strano? La faccia di sua moglie: più la fissava e più Luis si chiedeva che cosa avesse di strano. Il giorno prima l'aveva perfino guardata con sospetto. Pensò con un brivido che tutto questo avesse a che fare con la sospensione delle medicine.
Il giorno prima era stato un giovedì, oggi era venerdì. Se lo appuntò in testa.
– Su al passo.
Istintivamente, le loro teste si girarono verso la cima della montagna, che però era coperta dalle nubi. Era una montagna bassa, tondeggiante. Ci saliva una strada impervia. Il passo era poco più sotto della cima: dall'altra parte la strada scendeva e si allargava. Dove portava, Luis non lo sapeva. Non erano mai andati oltre. Non sapevano nemmeno i nomi di quei posti. La montagna era la montagna e basta. Il passo era il passo. Lassù c'era una piccola baita, sempre aperta, dove si poteva mangiare un piatto caldo. I pasti erano cucinati da una vecchia contadina che aveva un figlio deficiente. Il ragazzo passava il suo tempo a ricavare suoni strani da un'armonica a bocca. Sui prati circostanti crescevano dei fiori a forma di stella. Luis non ne aveva mai visti altri del genere. Piccoli fiori argentati a forma di stelle. La baita poteva contenere al massimo cinque o sei tavoli. Luis e Anna non avevano mai trovato altri clienti oltre a loro. La cucina era un bugigattolo dalle pareti annerite che odorava di fumo e di cipolle. La vecchia cucinava con l'energia pratica delle donne di montagna, che hanno visto le madonne spuntare dietro i campi arati di fresco nei giorni delle processioni di maggio e a lei si sono votate da ragazzine per averne in cambio una vita di fatiche e di orizzonti sghembi, quasi sempre carichi di nubi minacciose. Per raggiungere la baita si doveva procedere a piedi lungo un comodo sentiero sterrato che entrava nel bosco umido. Il sentiero confinava con un ruscello. Sul primo slargo erboso era stata eretta una lapide. Diceva che una bimba era morta annegata in quel ruscello, un giorno d'estate di tanti anni fa. La bimba si chiamava Klara. Davanti alla lapide c'era sempre un mazzo di fiori freschi. L'ultima volta che c'erano stati Luis si reggeva ancora abbastanza bene sulle sue gambe.
– Ma hai visto il tempo?
– Oggi è venerdì. Domenica è dopodomani. O no?
– Sì Luis, domenica è dopodomani. Hanno previsto schifo fino a lunedì. E poi, con questa... – Anna si alzò di scatto, senza terminare la frase.
– Questa – sibilò Luis, battendo i palmi delle mani sulle ruote della carrozzina – questa non sarà un problema. Potrebbe venire con noi anche Ewa, così mi spingerà lei. Ehi lo senti? Questo è un cuculo.
– Franciszka. Non c'è nessuna Ewa. E io non sento nessun cuculo.
– Zitta. Ascolta. Cu–cu. Cu–cu. Cu–cu.
– Non sei divertente.
Bernardo riemerse dal suo torpore: – Figo. Su al passo ci sono i minerali. Pieno di quarzi lassù.
Da qualche mese aveva deciso di cominciare una collezione di minerali. Luis si domandò se per caso non fosse stato lui a spingerlo a raccattare cose da terra. Forse da piccolo anche a lui piaceva collezionare sassi? Non se lo ricordava. Lo fa per opporsi alle forze cupe che dissolvono il mondo, pensò Luis. Ne conserva un pezzettino alla volta. Dovremmo farlo tutti. Finisce che gli daranno il Nobel, a quell'ebete.
Anna allargò le braccia: – Ecco! – disse soltanto. Poi guardò l'orologio. Si avvicinò a Ewa. Luis la sentì dietro di lui che sussurrava qualcosa alla ragazza. Tastò con le dita sul lato destro della carrozzina, dentro una piccola sacca. Estrasse il pacchetto delle sigarette. Cautamente, ne mise in bocca una senza accenderla. Quando si girò, quel tanto che bastava per inquadrare nel campo visivo un pezzo di camice bianco dell'infermiera, capì che sua moglie non c'era più.
– No no no, questo non buona cosa per lei, zignore! – La mano grassoccia e profumata di sapone alla lavanda dell'infermiera agguantò la sigaretta e la gettò lontano, giù per il giardino o addirittura nella forra del boschetto. Luis non si scompose. Faceva parte di una schermaglia prestabilita. Annusò l'aria.
– Secondo te, dopodomani pioverà?
Ewa disse qualcosa del tipo e io che ne so, ma in quel suo bizzarro miscuglio di italiano e polacco. Superò la carrozzina e si appoggiò al corrimano della terrazza. Era una donna sui trenta, trentacinque anni, di bassa statura, piuttosto tozza. Una massa funghifera, pensò Luis. Era sicuro che, per quanti sforzi avesse fatto, non sarebbe mai riuscito a penetrare nel mistero di chi lo circondava. Ewa, tutta quella accozzaglia di medici che ogni settimana lo sottoponevano a umilianti sedute di palpazioni e di autoanalisi con mille spilli dentro la testa, perfino sua moglie, non parliamo poi di Bernardo. Quanto è profondo l'animo umano? E quanto passato occorre mettersi alle spalle per riuscire ad accettare il proprio presente?
Ewa si girò e lo guardò sorridendo:
– Non è buona cosa questa qua.
– Cosa, questa qua? Ah, la sigaretta. Tanto non l'avrei nemmeno accesa, lo sai.
– No zignore, questa qua. – Sempre sorridendo, Ewa si avvicinò a lui puntandogli contro il dito indice. Gli toccò il punto mediano fra gli occhi (il terzo occhio! pensò Luis) e indietreggiò come se stesse tracciando una linea immaginaria. Si girò a trequarti e il dito finì la sua corsa contro una natica. Ewa scoppiò in una fragorosa risata. Luis socchiuse gli occhi, lasciò che la figura rotonda in camice bianco svaporasse sprizzando scintille contro il cielo plumbeo.
Doveva andare su al passo. Gli avrebbe fatto bene. C'era un'atmosfera sospesa da quelle parti. Una volta, quando lui stava ancora benone, c'era andato con una donna (possibile che non fosse sua moglie? Il problema, ancora una volta, era la faccia).
– Quando arrivi al passo devi lasciare la macchina e proseguire a piedi – spiegò Luis. Ma Ewa non si girò neppure. Luis proseguì: – Il sentiero per la baita inizia lì. Appena lo imbocchi e sei ancora fuori dal bosco vedi nel prato una grande piazzola tonda con in mezzo una grande H. Serve agli elicotteri in caso di emergenze. Chi si è fatto ammazzare? – La sirena ululava ancora: Luis provò a tapparsi le orecchie, ma quel lamento lancinante si sentiva lo stesso. Forse era dentro di lui. – Nessun morto, bene. La sirena suona a vuoto.
Chiuse gli occhi. L'aria fresca che montava dal giardino risaliva tutto il dorso della montagna. La sentiva, anzi la vedeva percorrere il profilo degli abeti, piegandone le cime, sfilando a uno a uno i grani del rosario del tempo fino a ruzzolare lassù, sul pianoro del passo. C'è solo un tipo di verde, pensò. Sono le sfumature a fare la differenza. Chissà come lo vede un tasso. Per noi un colore è un colore, ma per lui è in fondo una questione di sopravvivenza. Lei quel giorno gli disse: – E' una bella fregatura essere saliti fin quassù e non avere dietro una machina fotografica. – Voleva fargli delle foto. Era una ragazza leggera, i capelli sottili e neri raccolti tutti dentro un berretto di lana. Perciò era inverno. Luis non faceva più caso d'altronde alle differenze di stagione. Magari quella ragazza non era neppure Anna, ma anche questo a ben vedere poteva fare poca differenza ormai. – Fammi dare un'occhiata... – Fu lei a scoprire la piazzola per gli elicotteri. Deviarono dal sentiero. Dovettero procedere a passi alti, perchè il prato era una mezza palude. Quando finalmente arrivarono al grande tondo in cemento grigio si abbracciarono. Tirava un forte vento gelido, Luis se lo ricordava bene come se fosse oggi. L'abbraccio diventò una specie di danza. Forse lei si mise a canterellare qualcosa, sta di fatto che alla fine ballarono davvero e Luis, che a ballare era sempre stato negato, disse che quello, di tutti i balli, era davvero il ballo perfetto.
Stavolta per la solita riunione settimanale del lunedì il Responsabile della Casa aveva radunato tutti giù nel grande piazzale. Faceva caldo, anche se nel fine settimana precedente aveva piovuto. Un maltempo passeggero che aveva lasciato spazio nuovamente all'afa. Il piazzale era dedicato a Sant'Onorio, notò Anna. C'era una statua del santo, dietro di loro, dentro un'aiuola curatissima, stracolma di fiori. Accavallò cautamente le gambe. Gli altri era seduti come lei in semicerchio su vecchie sedie di ferro brunito. In totale gli operatori erano venticinque, disse soddisfatto il Responsabile, dopo averli segnati uno a uno col dito mentre contava.
– Avete caldo? No? Ottimo, cominciamo. Diamo lettura del verbale dell'ultima seduta. Lascio l'incombenza al nostro Segretario. Grazie.
Si alzò un ometto dalla testa pelata, sudatissimo. Si passò un fazzoletto sulla fronte e attaccò a leggere con una vocetta stridula, quasi d'un fiato: – Sì, dunque, ecco... Al punto uno vengono presentati i preventivi della Tipografia Sinibaldi & soci per la stampa della newsletter NOI ALZHEIMER richiesti per ridurre i costi visto il periodo di crisi economica. Dopo diverse discussioni si delibera di mantenere una veste tipografica di costo contenuto anche se accettabile. Al punto due l'esperto informatico signor... signor... – l'ometto si fermò con aria sinceramente contrita. – Mi dispiace, non si legge bene – disse. Passò di nuovo il fazzoletto sula fronte grondante. Qualcuno degli operatori gli tirò una palla di carta. – Accenditi una Lucky. E' ora di godersela – disse un altro, ridendo. L'ometto proseguì: – Il signor X ha revisionato e rifatto il nostro sito web rendendolo molto più completo e funzionante. Poiché il lavoro è stato fatto a titolo gratuito, il professor Caracristi chiede se sia il caso di dare un compenso forfettario. Punto tre, il prezzo per la cena sociale del 12 luglio concordato con il Golf Club è di trentasette euro. Cadauno, s'intende.
Il Responsabile del Centro gli si avvicinò, imponendogli una mano sulla testa. Guardò tutti e disse: – E' necessario spostare l'appuntamento mensile con i famigliari, che verranno avvertiti alla fine di questo mese. Per l'intrattenimento è stato contattato il Maestro Airoldi, docente di fisarmonica al conservatorio. Il compenso richiesto è di duecento euro. Sarà presente l'intrattenitrice dello scorso anno. Grazie Segretario, mi pare tutto. Altro? Domande?
Lo sguardo del Responsabile cadde sulla faccia di Anna, che lo stava osservando distrattamente. – Ah sì, scusate. Prima di entrare nel merito della seduta odierna, vorrei ricordare un caro paziente che se n'è andato l'altro ieri, sabato. Anna e Bernardo, siete stati avvertiti vero che...?
Anna divenne paonazza. Fece segno di sì con la testa. Bernardo, accanto a lei, rigirava un sasso fra le mani. Annuì anche lui.
– Il povero signor Luis Stieghofer mancherà molto a tutti noi. – La faccia del Segretario era diventata tutta seria. – Anna, vuoi raccontarci qualcosa su di lui? Se non sbaglio tu e Bernardo nelle ultime settimane lo avete seguito più da vicino degli altri.
Anna non si alzò. Tirò l'orlo della gonna per sistemarla sul ginocchio e disse: – Luis era ormai in uno stadio molto avanzato. Anomia, parafasia verbale, disprosodia affettiva, logopenia: aveva passato tutte le fasi canoniche. Ogni tanto aveva qualche sprazzo di lucidità. Un giorno, appena la settimana scorsa, mi ha chiesto: io sono pazzo? Sai Anna, la parola non vuol dire un cazzo se non la prendi nel suo significato pieno.
Ci fu un momento di trattenuta ilarità fra i presenti.
– Scusate la parola.
– Vai avanti Anna, non importa.
– Sant'Onorio mi perdonerà?
Qualcuno rise più forte. Anna proseguì:
– Venerdì scorso era diventato davvero insopportabile... Oh scusate. Un'altra licenza. Ma penso che chiunque abbia avuto a che fare con... Insomma, ci siamo capiti... Non era un tipo facile. Venerdì mi ha detto che voleva andare su in montagna, parlava di un passo, non ho ben capito. Gli ho fatto notare che era brutto tempo. Volevo testare il suo stato di perseverazione verbale. Come era facilmente prevedibile, la comunicazione era divenuta pressochè impossibile.
– ... e qui non serve, vero, che io vi rammenti il famoso caso della paziente Auguste D. del dottor Alzheimer... – la interruppe il Responsabile, che staccò la mano dalla testa del Segretario dove ancora la teneva e la impose stavolta su tutte le teste, tenendola aperta davanti a sé. – Il commento finale che scrisse Alois Alzheimer nella cartella clinica è emblematico: Alla fine, non era più possibile alcuna forma di conversazione con la malata. Scusa Anna, va avanti.
Ma Anna non proseguì. Fece un cenno con la testa, come a dire: ho finito, non ho altro da aggiungere. Piegò la testa su una spalla, stirando le braccia in avanti. Un altro operatore alla sua destra avvicinò la testa alla sua e le sussurrò: – Noi non siamo veri. Loro sono solo dei bambini disperati. Hanno la possibilità di essere veri e non lo sanno. – Dopodichè sbadigliarono entrambi, l'uomo e Anna, all'unisono.
ilraccontodelmesediaprile2013
La vendetta tardiva
– Tutti ci conformiamo al disastro che arriverà – spiegò Antonia alla classe, asciugandosi l’angolo della bocca con la punta di un kleenex. – Per questo ci consoliamo e maturiamo.
Aveva chiesto ai suoi studenti di scrivere un breve testo sul tema della vendetta tardiva. Adesso tutti la guardavano con aria stupita. Corresse nervosamente la scriminatura sghemba dei capelli. Odiava sentirsi infilzata dagli spilli di quegli sguardi.
Che idea stupida, si disse fra sé. La vendetta tardiva e il disastro imminente: considerò brevemente la coppia di elementi che era riuscita a costituire così praticamente dal nulla e assegnò a ciascun elemento un nome. Lei, Antonia, era il sasso nero, il più leggero. I disastri sono sempre leggeri, in fin dei conti. Saggiò per qualche attimo il silenzio teso che aveva creato nell’aula. Avvertì un piccolo brivido di potere: se non altro, era riuscita ad ammutolire quegli scalmanati. Il bello adesso era trovare un filo logico che chiudesse il cerchio di quel ragionamento.
Una ragazza della seconda fila era seduta al proprio banco con il corpo proteso in avanti come se dovesse alzarsi e andarsene da un momento all’altro. Fatti guardare bene, ragazza–seconda–fila. Sul palmo di una mano si era scritta qualcosa con la biro. Poteva essere una formula matematica. Portava occhiali enormi e aveva un vistoso neo scuro al centro di una guancia, simile a una mosca. Ad Antonia venne quasi la tentazione di sventolare una mano per scacciarla. Il suo compagno di banco masticava lentamente una gomma. Fissava un punto imprecisato sopra la testa di Antonia. Dimostrava molti meno dei suoi probabili diciassette anni. Se la faceva con la compagna di banco, questo era noto a tutta la classe. Lei però sembrava molto più matura, non solo fisicamente. O forse era solo l’effetto del suo prorompente seno, che le conferiva un’aria matronale e adulta?
– Naturalmente, questa prova vale per il voto finale del quadrimestre – annunciò Antonia, tornando sui suoi passi. Una precisazione del tutto inutile: ogni studente di quella scuola sapeva perfettamente che le tesine di fine quadrimestre rappresentavano per la professoressa Forrer Aazar (che aveva abolito d’ufficio l’interrogazione orale) l’unico elemento di giudizio nei loro confronti. Questa cosa per poco non le aveva causato un guaio con il consiglio dei docenti, qualche tempo addietro. Solo il preside Gooderson – un olandese trapiantato da molti anni in Trentino, grande giocatore di scacchi e grande puttaniere – aveva avuto la decenza di difenderla, a denti stretti.
– Diamine, Antonia, almeno inventarti un’interrogazione ogni tanto, anche solo per finta. Sai come sono fatti “certi” lì dentro – le aveva detto aggiustandole il colletto della camicia prima di introdurla con una manata sulle spalle nella Sala dei docenti, annunciandola alla schiera dei colleghi già equamente distribuiti dietro al tavolo ovale, da una parte i colpevolisti e dall’altra i quasi–innocentisti.
Ad ogni buon conto, Antonia era convinta che i concetti ripetuti più volte acquistino nel tempo una loro forza persuasiva. Ebbe cura anche, mentre formulava l’annuncio alla classe, di calcare la pronuncia delle ultime parole. Sapeva che questo avrebbe aumentato in loro il grado di soggezione. Una questione di temperatura, si disse.
Diresse lo sguardo fuori dalla finestra. Il cielo era velato. Lo aveva annunciato solennemente suo figlio quattordicenne Reza quella mattina, appena sveglio, con gli auricolari dell’ipod già incastonati nelle orecchie – probabile che non se li fosse levati neppure per dormire – e costringendo perciò la sua voce a salire di parecchi toni, più di quanto Yassoufi, il marito di Antonia, considerasse dignitoso e civile. Alcune regole, personalmente dettate da lui, venivano osservate da tutti con la stessa incredibile rigidità con cui molte altre venivano costantemente ignorate: Yassoufi si chiedeva spesso se questo poteva rappresentare un efficace paradigma di ciò che gli occidentali del ventunesimo secolo chiamano democrazia. Da qualche tempo Reza aveva preso l’abitudine di informare la famiglia, dopo essersi alzato, sulle condizioni meteo del giorno. Sembrava sinceramente molto interessato a quello che poteva capitargli sulla testa dopo che fosse uscito di casa. Il fatto di non riuscire quasi mai a suscitare il medesimo interesse negli altri abitanti della casa – nemmeno in Fatima, che era pur sempre sua sorella gemella – lo irritava tantissimo.
– Sapete cosa vi dico? Il vostro silenzio mi sembra inopportuno.
Oh, aveva detto proprio così Ree? Inopportuno: Antonia considerò e riconsiderò quella parola, passeggiando nell’aula su e giù per lo stretto corridoio formato da due file appaiate di banchi, ma non riuscì a quadrarla nel cerchio di un banale deficit di attenzione. Fece aprire i quaderni:
– Vendetta tardiva e disastro imminente. Quale collegamento vi suggeriscono questi due concetti?
Ma sì, pensò, che se la sfanghino da soli: dopo tutto, è un bene che comincino da qui, dai salti mentali in apparenza inconciliabili.
– Improvvisate – aggiunse, confidando di accattivarseli un po’. Per un istante meditò di stuzzicarli con il discorsetto sul Logos in continua evoluzione come i temi musicali nella musica jazz, ma che ne sanno venticinque brufolosi adolescenti oggi della musica jazz?
Ad ogni buon conto, Reza era anche un ragazzo dalle mille risorse. Se non riceveva l’attenzione che gli sembrava adeguata, si industriava. Quella mattina, fece scivolare tra sé e la sua famiglia una manciata di minuti, carichi di imperscrutabile indignazione, poi lo si sentì cacciare un urlo dalla sua camera al piano di sopra:
– PIOVONO RAGNETTI!
Antonia, che aveva appena ricevuto dalle mani del postino due buste, una gialla e grande, l’altra bianca e più rettangolare sul tipo delle buste che si usano per la corrispondenza di un ufficio, stava ritornando in casa a passo lento, con le braccia tese davanti a sé e le due buste nelle mani, una per parte.
– No, non è un’emergenza in senso stretto… – L’unica cosa che a Fatima dava sui nervi era dover ripetere due volte lo stesso concetto. Yassoufi invece ci si divertiva un mucchio.
– Non incalzarla, Yassoufi. Ci stai provando un gusto sadico. – Antonia sciolse il passo da sonnambula, aprì e depositò le buste sul tavolo (per la precisione, le adagiò con cura appaiandole l’una accanto all’altra, come le carte dei tarocchi), ma c’era un lembo di nube sui suoi occhi, notò di sfuggita suo marito, con la voce ancora impastata di sonno.
– Quanto a te, che fine hanno fatto i venti euro che ti ho sganciato ieri?
L’uomo, che stava seduto al tavolo della cucina esattamente di fronte a Fatima, smise di tormentarla con un dito ogni volta che la figlia provava a oltrepassare il confine immaginario della sua parte di tavolo per la consueta cerimonia dell’imburramento delle fette di toast e rivolse alla moglie uno sguardo interrogativo. Antonia alzò le sopracciglia in segno di resa:
– Ok ok, ieri abbiamo riaperto la cassa. Ma ieri era un’emergenza, non è vero? – La figlia annuì.
Yassoufi lasciò ricadere pesantemente il dorso della mano sul ripiano del tavolo. Decise di cambiare registro. Gli venne fuori una sorta di perorazione sarcastica, un po’ troppo scopertamente melliflua, ma ad Antonia piacque molto:
– Piuttosto, occupiamoci dell’ennesima ge–nia–la–ta dell’altro tuo figlio.
Una criniera ispida e nera, con dentro una faccia rovesciata, apparve dalla cima della scala. Reza sembrava realmente molto divertito.
– Ragnetti? – si domandò oziosamente Fatima, senza neppure girarsi. Le avessero annunciato lo sbarco dei marziani nel cortile di casa, avrebbe tranquillamente continuato a imburrare la sua fetta di toast. Yassoufi restò con la mano riversa sul tavolo, fissando i rettangoli diseguali delle due buste. Quella gialla aveva un timbro di colore blu scuro nell’angolo di sinistra, in alto, ma da lì non riusciva a decifrarlo.
– OK, ADESSO IO E MAMMA VENIAMO SU A VEDERE – disse alla fine, alzando la voce, ma di poco, con la faccia rivolta al piano di sopra. E subito dopo, di nuovo guardando la figlia: – Ma della faccenda di questa sera riparleremo poi noi due. – Come unica reazione Fatima aumentò la frequenza dei passaggi del coltello sul burro.
Salendo la scala che portava in mansarda, Antonia lasciò passare il marito davanti e gli piantò lo sguardo sulla nuca. Appena il giorno prima, suo padre le aveva chiesto come andassero le cose con Yassoufi. Una domanda che, formulata così, senza una motivo apparente, poteva anche sembrare un po’ strana: a meno che, aveva concluso Antonia, in qualche modo suo padre non volesse introdurre uno dei suoi argomenti correlati preferiti, ovvero la sua situazione familiare, ovvero l’ennesima avventuretta sentimentale. Lei aveva risposto, istintivamente:
– Siamo sposati.
Il che naturalmente era vero e, come dire, inquadrava perfettamente e con mirabile sintesi la sua situazione. Ma era anche pur sempre, pensò, una risposta davvero cazzutissima.
In cima alla scala si fermò un secondo a guardarsi nella porta a specchio del vecchio armadio a due ante che avrebbero dovuto buttare al macero ancora dieci o quindici anni fa, cosa che nessuno naturalmente si era presa l'incombenza di fare. Si voltò a tre quarti per esaminare il proprio sedere. E’ lì che tutte marciscono, no? A occhio, non si era poi gonfiato tanto in tutti quegli anni. Forse le ampie spalle si erano un po’ incurvate, sicuramente aveva messo su dei bei fianchi, ma concluse di non essere poi tanto cambiata dalla ragazzona timida e impulsiva che Yassoufi aveva conosciuto ventidue anni fa al ricevimento dell’ambasciata italiana di Tel Aviv, per la ricorrenza del 2 giugno: una stangona bionda con il fisico da nuotatrice professionista (da ragazza era stata nella squadra nazionale di nuoto) e l’inconfondibile risata sguaiata sempre pronta che Antonia era abile nell’utilizzare come un’arma. Se ne serviva soprattutto per camuffare i frequenti imbarazzi – non era un’intellettuale, protestava spesso, usando questa parola con una punta di sarcasmo per indicare Yassoufi e la sua piccola schiera di amici che stazionavano regolarmente a casa sua e i cui discorsi complicati la mettevano a disagio – oppure per stroncare sul nascere le velleità degli idioti importuni che continuavano a ronzarle intorno, anche ora che aveva passato la quarantina e portava i segni di due gravidanze difficili che avevano riempito ulteriormente le sue forme. Aveva sempre avuto un aspetto poco femminile, che nel tempo lei stessa aveva contribuito ad accentuare tagliando i capelli molto corti e indossando sempre vestiti sportivi, larghe tute da ginnastica, jeans e pullover, scamiciati estivi dai colori pastello. Nell’abbigliamento si faceva prendere da infatuazioni stagionali. Recentemente l’India la faceva andare fuori di testa. Girava per casa, e non solo, con delle sottane bianche sfrangiate. Addosso al suo corpo statuario e così poco orientale le conferivano un’aria imperiosa, da antica divinità.
– C’è qualche possibilità che la cena abbia finalmente inizio? – Quella sera al ricevimento dell'ambasciata italiana a Tel Aviv il dottor Yassoufi Aazar, fresco di un master in filosofia ad Harvard e già autore di un paio di saggi su Kant che gli avevano procurato un discreto apprezzamento, malgrado la giovane età, nei circoli filosofici della East Coast, non aveva certo sperato di essere particolarmente originale, ma non aveva saputo cos’altro dire per agganciarla. Il tono era però quello giusto: gioviale e simpatico, del tipo ehi ragazza, se vuoi passare una serata senza troppi pensieri io sono qui. Aveva molto talento nell’improvvisare. E una incrollabile fiducia in se stesso.
Sul prato del giardino dell’ambasciata l’ultimo sole allungava le ombre, sorretto da un leggero vento che arrivava dal mare. Odori di cedri e di legno di sandalo. La villa non aveva un aspetto imponente. Dava più l’impressione di un lusso contenuto, sul modello di quello che si trova in certi begli alberghi: assai più che decorosi, certo, ma non ci abiteresti mai per lunghi periodi. Gli invitati chiacchieravano divisi in gruppetti più o meno omogenei. Sembrava che si conoscessero tutti. O fingevano bene. Antonia notò che quel giovane dai folti capelli nerocorvini e il fisico asciutto, allungato come un palo ritorto, continuava a fissare con un certo compiacimento la punta delle sue scarpe lucide, sicuramente appena acquistate, solo leggermente impolverate. Indossava un completo blu scuro che, come lui stesso le confessò qualche tempo dopo quando furono in maggiore confidenza, gli aveva prestato il vecchio BenBen, uno zio acquisito per parte di madre che aveva lasciato Teheran ben prima della Rivoluzione e si era trasferito prima in Libano e poi in Israele, dove aveva preso servizio presso la segreteria dell’ambasciata italiana. Quando Yassoufi aveva deciso a sua volta di andarsene dal suo paese, pochi giorni prima dell’arrivo trionfale di Komeini, l’unico posto al mondo in cui non avrebbe voluto andare era la casa di Ben Ben Mashud, che non gli era mai andato a genio, ma come disse alla moglie rievocando quei giorni realisticamente non ebbi alternative. Quello che voleva evitare soprattutto era di bussare alla porta di qualche consolato, in un qualsiasi paese dell’Occidente, e farsi appiccicare addosso l’etichetta di rifugiato politico o qualcosa del genere. Certo, non aveva in grande simpatia i barbuti custodi della Rivoluzione che erano spuntati come funghi in Iran subito dopo la caduta dello Scià, ma non era esattamente per quel motivo che se n’era andato, mollando famiglia, casa e amici.
– C’è qualche possibilità che la cena abbia finalmente inizio? – Il suo inglese era penoso, ma almeno sperava che potesse risultare, come dire, carino.
– Ce l’ha nel piatto – La voce di quella che gli era stata presentata come Antonia, ma di cui con tutta evidenza aveva già dimenticato il nome, aveva un inequivocabile tono da presa per il culo.
– Come ha detto, scusi?
– La cena. E’ quella che ha nel piatto.
Yassoufi rimirò il terzetto composto, nell’ordine, da una tartina tricolore, un vaul–a–vent e una pizzetta. Tutto rigorosamente freddo, s’intende.
Antonia aveva riso forte. Per la prima volta lui ne dovette apprezzare la famosa risata, la cui intensità e il cui timbro così mascolino attirarono com’era inevitabile l’attenzione di tutti e lei – com’era altrettanto inevitabile – avvampò di colpo. A quell’epoca non riusciva a controllare bene l’incendio che in un secondo poteva infiammarle il volto. Si sentì bruciare.
– Non sei mai stato a un ricevimento in un’ambasciata, eh? – all’improvviso dal lei era passata al tu e questo non lo aiutò assolutamente a superare la crisi.
– Lo so, sulle prime ci si resta malissimo. Si immagina sempre una cosa da Mille e una notte (oh scusa, non vorrei sembrarti inopportuna con una citazione dalla tua cultura…) e invece la realtà è che i ricevimenti vengono pagati con il budget personale degli ambasciatori e poi c’è una circolare che impone una certa misura, bla bla bla... – Dieci minuti dopo stava ancora riversando addosso a Yassoufi un fiume di parole in un inglese che per fortuna lui comprendeva a stento. Non avrebbe prestato comunque attenzione alle sue parole. Come le confidò dopo, decise che se ne era già innamorato perdutamente. Quando lei rifiatò, lui le prese una mano, la strinse fra le sue, sentì che era fredda e gliela scaldò, attraversò il suo sguardo pulito come un sasso incandescente in un cielo d'estate e le disse che la voleva sposare. Antonia sorrise, ma era più una smorfia che un sorriso vero, e per tutta risposta farfugliò qualcosa come mi dispiace davvero tanto, ma ho un problema di stomaco prima di scappare via in bagno a vomitare.
Quell’episodio, che non mancava mai di essere raccontato in casa Aazar come una specie di tormentone che ormai aveva sfiancato la resistenza anche degli amici più stretti, la fece sorridere ancora.
Nella cameretta di Reza c'era appiccicato ovunque un odore di sudore e di bimbo, malgrado ormai Ree non lo fosse già più da un pezzo.
– E allora, di che cosa si tratta? – la voce di Yassoufi risuonò brillante e quieta, come un vento caldo. Due occhi luminosi bucarono il buio dell'angolo in cui suo figlio si era rintanato. Il ragazzo fissò entrambi i genitori senza parlare, poi indicò qualcosa sul soffitto con un dito. Antonia non vide nulla. Andò alla finestra e tirò le tende. La luce inondò la stanza di colpo e fu come se tutto cambiasse aspetto all'improvviso. Reza si alzò di scatto, urlando: – MAMMA! – Sembrava realmente infuriato. – Quelli si vedono solo al buio. – Antonia incrociò le braccia, soffiando sul ciuffo che si ostinava a ricaderle sugli occhi. – Adesso basta, Ree. Farai tardi a scuola. – Suo marito si inginocchiò a terra e si rialzò tenendo qualcosa di invisibile fra due dita. – Ragnetti. – disse. – Il pavimento è pieno di ragnetti morti.
Reza chiamava la sua stanza il Consolatorium. Chissà dove era andato a prendere quella parola. Quella mattina la camera aveva più l'aria di un campo di battaglia. C'erano ovunque, in grande quantità e sparsi in giro, libri, vestiti, oggetti strani (Ree era un appassionato di meccanica). In un angolo, un vaso di peonie era stato rovesciato e parte della terra era sparsa sul pavimento. Tutti i cuscini del divanetto erano finiti, in modo impressionantemente simmetrico, sul tavolo da studio, ai due lati, in modo da formare una specie di piccola trincea. Sotto al tavolo c'era un motore di macchina o qualcosa che gli assomigliava molto (per quello che Antonia poteva riconoscere, lei che non capiva nulla di queste cose), ma mezzo smontato, con pezzi e bulloni e arnesi da lavoro disseminati tutt'attorno. Antonia fissò suo figlio, o meglio quello che in quel momento, per quanto potesse sembrare assurdo quel pensiero, sembrava suo figlio. Sei stato dentro di me, e non ti conosco affatto, pensò.
– ... caporale d'aviazione e corrispondente di guerra... – la voce di suo marito le arrivò all'improvviso, a pezzi, come uscendo da qualche anfratto silenzioso. Cercò di decodificare qualcosa. Adesso Ree era seduto sul letto, nell'unico angolo libero dalla montagna di cianfrusaglie che lo ricopriva. Yassoufi aveva in mano un vecchio album fotografico. – Ma il bisnonno morì in guerra? – domandò Reza. Suo padre si girò verso Antonia: – Chiedilo a tua madre – rispose. Lei annuì. – A Napoli, sì. Durante la ritirata tedesca, dopo che gli Alleati... – Reza si chinò in avanti: – Eccone un altro! – sbottò trionfante, esibendo un ragnetto sul palmo della mano. Antonia si accostò al marito, lo toccò sul gomito e quando lui si voltò a guardarla gli domandò seria: – Perchè hai detto Chiedilo a tua madre? – Lui non rispose, si limitò a fissarla tranquillamente. Lei insistette: – Perchè non glielo hai detto tu? E' una cosa che abbiamo raccontato a loro decine di volte... – Il marito fece una smorfia: – Che hai? Va tutto bene? – Respirò a fondo un paio di volte prima di rispondere: – Era il tono, Yassoufi. Era il tono della tua voce. Era... non so come definirlo... era maligno.
Perchè aveva usato proprio quell'aggetivo, maligno? L'uomo si staccò da lei arretrando di un passo, come a volerla mettere a fuoco meglio, e sorrise. Ma quello che gli si aprì sulla faccia non era precisamente un sorriso, notò Antonia. Era la quiete prima di un disastro imminente. Non sapeva esattamente perchè: certi pensieri le arrivavano così, senza un motivo apparente. Ma all'improvviso capì da dove l'aveva pescato. Non era un pensiero. Era un preciso e nitido ricordo.
Una decina d'anni prima c'era stato un certo interessamento per un suo manoscritto, Sulla via del ritorno. Esperienze di guerra 1941–1944, in cui aveva raccolto parte del materiale lasciatole dal nonno paterno, Gustavo Forrer. Antonia si dedicò con imprevista passione all'opera di trascrittura del diario, che il nonno aveva redatto in una grafia sicura ma così minuta – probabilmente per risparmiare sulla carta, che in quella situazione doveva essere merce piuttosto rara – da risultare di difficilissima comprensione. Le ci vollero parecchi mesi di lavoro: alla fine non solo riuscì a decifrare tutto il testo, ma si convinse che quel materiale avrebbe meritato senz'altro di essere pubblicato. Provò a contattare numerose case editrici italiane, senza esito. Alla fine, quando aveva ormai già quasi perso la speranza, un piccolo editore francese che aveva già pubblicato anni prima i due volumi di studi kantiani di Yassoufi, si disse disponibile a prendere in considerazione il materiale e propose ad Antonia un incontro con il direttore editoriale della collana di storia contemporanea (in realtà, fino a quel momento in catalogo risultavano esserci solo altri quattro libri) per discutere alcuni dettagli di lavoro sul testo. La casa editrice aveva sede in Normandia, poco distante dalla cittadina di Arromanches–les–Bains, nei luoghi dello sbarco alleato del '44 e ad Antonia, che da mesi si era calata con grande puntiglio nella parte della ricercatrice storica, parve una meravigliosa occasione per fare un'autentica esperienza sul campo, tanto più che – disse a Yassoufi quando gli comunicò la sua intenzione di accettare l'invito dell'editore – lei in Normandia non c'era mai stata, anzi per dirla tutta non era mai stata in Francia, e se il marito poteva sospendere per qualche giorno la sua attività si sarebbero concessi una breve vacanza, tanto i figli (che all'epoca avevano quattro anni) avrebbero potuto stare benissimo da suo padre. Yassoufi accettò con una certa riluttanza. Non aveva alcuna simpatia per il suocero, tanto meno per le vacanze in generale. La vacanza è l'occasione in cui si manifesta nell'uomo l'assoluta mancanza di pudore, era una delle sue frasi più frequenti. Inoltre era ancora pieno inverno: avrebbero sicuramente trovato un clima rigido e umido, cosa che rendeva piuttosto seccante fare turismo, protestò. Alla fine tuttavia accettò.
Arrivarono ad Arromanches–les–Bains un venerdì di fine febbraio. Le peggiori previsioni di Yassoufi furono confermate in pieno. Era impossibile distinguere il mare dalla cappa di grigio sovrastante. La linea dell'orizzonte era stata risucchiata nel timbro cupo di una giornata comune da quelle parti, specie d'inverno, come fu detto loro all'albergo.
Il colloquio alla casa editrice sarebbe stato nel pomeriggio. Avevano tutto il tempo di scoprire i dintorni. Imboccarono un sentiero di sabbia fra le dune livellate dal vento gelido. Mentre procedeva con passo svelto, Antonia lesse a voce alta dalla sua guida, tenendo il libretto davanti a sè: Le attrazioni della zona comprendono: Gold Beach, Cattedrale di Notre–Dame Bayeux e Musee de la Bataille Normande. Nelle vicinanze è inoltre presente: Museo degli arazzi di Bayeux. Yassoufi era dietro di qualche passo, lo sentiva sbuffare, anche se il vento tendeva ad avvoltolare le voci come i fogli di giornale che volavano alti alti, oltre gli steccati dei villini fronte–mare. Faceva un freddo cane, intorno non c'era anima viva. Perfino il mare sembrava muto, pensò Antonia. Infatti le onde si infrangevano sulla spiaggia in lontananza apparentemente senza alcun rumore, così quando girava il vento il fragore la coglieva di sorpresa, raddoppiando l'effetto. Di tanto in tanto una lama di sole fendeva lo strato di nubi e la spuma biancastra del mare riluceva all'improvviso, per brevi attimi. Altri rumori cascavano lì attorno, ma sempre per brevi attimi: una sirena, il batti e ribatti metallico di un cancelletto, un'auto che passava sulla strada alle loro spalle.
Il sentiero si inerpicava salendo su una specie di dosso. Fu solo quando arrivò in cima che Antonia finalmente li vide: enormi scatoloni di lamiera nera conficcati nella sabbia, i resti del porto artificiale costruito dagli Alleati in soli otto giorni per lo sbarco dei mezzi pesanti. La spiaggia in quel punto era molto larga, penetrava come una grande lingua fino a lambire le case del villaggio. Antonia si sedette sui cespi umidi in cima a quell'altura, incrociò le braccia sulle gambe piegate e si lasciò avvolgere dal tutto, affondando la faccia nel bavero della giacca a vento. Poi chiuse gli occhi. Pensò ai soldati, pensò al sangue rimestato dalle onde nel mare che ribolliva, pensò alle grida e agli scoppi, pensò alle conseguenze dei nostri errori e al cielo implacabile e lontano che imcomberà sempre su tutti i disastri dell'umanità.
Sotto di lei, il pendio precipitava bruscamente. Se avesse fatto resistenza alle formidabili folate di vento e si fosse sporta un po' di più, avrebbe visto il suo sguardo annegare in quel piccolo abisso. Quando Yassoufi la raggiunse, ansimando e piegandosi con le mani sulle ginocchia per riprendere fiato, ancora prima di girarsi verso di lui riconobbe il suo sguardo acuminato che la trafiggeva da qualche parte, fra la nuca e le spalle.
– E' una giornata schifosa. Questo vento è schifoso – disse infine, allungandole una mano fra i capelli. – E stare qui è pericoloso. Tu soffri di vertigini, meglio se non guardi di sotto.
Antonia non si mosse. Fare resistenza al vento, ripetè mentalmente. Le piaceva quella parola, resistenza. Era una pietra levigata e lucida conficcata nella sabbia, ignara delle voci, del vento, degli scoppi e del sangue. Ignara di tutto. Le venne da piangere. Forse non pianse davvero, forse gli occhi le si inumidirono a causa del forte vento, ma era sicura che avrebbe pianto a dirotto, se solo ne fosse stata capace. L'ultima volta che l'aveva fatto sarà stata una bimba.
– Ti ricordi di Markus?
– No.
– No certo che no, non l'hai conosciuto. Era un mio compagno di classe al liceo. C'era stato qualcosa fra noi, ma niente di più di qualche sguardo, credo.
– Infatti non lo conosco. Perchè me ne parli adesso?
– Me l'hai fatto tornare in mente tu, pochi istanti fa. Quando hai detto che soffro di vertigini e che potrei cadere di sotto...
– Non l'ho detto. Che puoi cadere di sotto, intendo. Ho detto solo di non guardare di sotto.
– Sì, scusa, il vento si mangia le parole.
Fiorivano sempre i lillà attorno alla casa dei Nielsen. Il signor Jakob, come era chiamato da tutti nel circondario il padre di Markus, veniva da Innsbruck e delle proprie origini austriache aveva conservato gelosamente uno spiccato senso del decoro. Quella che i Nielsen chiamavano villetta era in realtà una modesta casa a due piani, circondata su tre lati da un piccolo giardino, tra la ferrovia e il fiume. Il quartiere era popolato, soprattutto all'epoca, per lo più dalle famiglie degli operai di una vicina fabbrica. In quella zona, le case si assomigliavano tutte. Ma quanto a decoro, la villetta dei Nielsen le batteva tutte.
Antonia pensava che a volte Markus si prendesse un po’ troppo sul serio. In questo era molto simile al padre. A casa Nielsen i libri e l’amore per l’arte non erano mai mancati. Però Markus era attratto da altro: le armi, in primo luogo. E poi le donne certo, ma in subordine. I libri gli erano venuta a noia molto presto, come del resto suo padre.
Ogni tanto, nell'ultimo anno, finita la scuola Markus accompagnava Antonia nel ritorno verso casa. Una volta, in questi tragitti quasi sempre silenziosi, aveva rotto la sua personale consegna al mutismo dicendole che avrebbe voluto fare l'urbanista.
– E cosa fanno gli urbanisti? – aveva chiesto Antonia, stupita da tanta loquacità.
– Si occupano di città.
– E che fanno alle città?
Lui fece spallucce: – Tanto la maggior parte dei lavori non serve a niente.
– Oh, sembri convinto.
– Mmm. Da qualche parte stanno costruendo bombe che ce le sogniamo.
– Dici davvero?
– Mmm.
– Dove?
– Da qualche parte.
Il discorso era finito lì, e d'altra parte, pensò Antonia, che altro ci sarebbe stato da aggiungere? Quando Markus scomparve era la naturale conseguenza di una follia latente, giudicò impietosamente. Scomparve letteralmente nel nulla: una mattina non si presentò a lezione e non tornò più. All'inizio nessuno ci fece caso: le sue assenze da scuola erano frequenti. Poi, col passare delle settimane, apparve a tutti chiaro che non solo Markus non sarebbe mai più tornato, ma che forse aveva perfino fatto una brutta fine. Fare una brutta fine era, per la piccola e bigotta comunità di Trento, non solo l'esito di un destino sciagurato: era né più né meno un marchio infamante.
Alcuni mesi dopo Antonia ricevette una lettera. Una busta gialla, di un formato strano, non rettangolare classico, quasi quadrata (infatti dovette pagare una multa al postino all'atto di accettazione, per "formato non regolamentare"). Odorava di fumo di sigaretta. Dentro c'era un foglio: solo poche righe, scritte a mano con una grafia svolazzante, quasi una scrittura da vecchio se non fosse che la firma in calce era di un amico di Markus, compagno della stessa scuola ma di un'altra sezione. Antonia lo ricordava appena. Forse l'aveva visto in compagnia di Markus una o due volte. Ma non avrebbe mai pensato che fossero così amici.
La sostanza della lettera era molto semplice: senza tanti preamboli, costui rivelava ad Antonia che Markus era morto e che lei – lei, Antonia! – avrebbe dovuto ritenersi responsabile della sua morte. Sbigottita, lesse tre o quattro volte le poche righe che formavano dunque il suo atto d'accusa. A quanto pare, Markus si era innamorato perdutamente di lei. Sentendosi in qualche modo rifiutato (ma come? ma quando? Antonia non riusciva a comprendere: in nessun modo, mai, le era sembrato che provasse qualche sentimento per lei) era fuggito davvero, in un qualche luogo sperduto dell'Africa subsahariana. A quanto pare si era fatto ingaggiare come mercenario in una delle tante guerre che si combattono da quelle parti. A quanto pare, nel corso dell'assedio a un villaggio, si era gettato contro un miliziano della parte avversa in un temerario quanto improbabile corpo a corpo, rimanendo gravemente ferito. A quanto pare era rimasto agonizzante per molte ore, nella polvere, per strada, abbandonato, mentre intorno infuriava una sanguinosa battaglia. A quanto pare, l'amico che scriveva quella lettera era stato informato su questi dettagli dall'ambasciata italiana, che si era prodigata per ricostruire la vicenda eccetera. A quanto pare, infine, tutto questo era stata la conseguenza dello sconfinato amore che Markus provava per lei, Antonia. La lettera chiudeva con una frase secca come una sentenza, talmente sorprendente che Antonia dovette rileggerla più volte: Markus Nielsen, diciottenne. Innamorato non ricambiato: dunque privilegiato e defraudato.
Non pensò nemmeno per un istante che la lettera potesse essere uno scherzo macabro o frutto della fantasia di un deficiente intenzionato solo a gettarle addosso il fango di una calunnia. Istintivamente, sentì che doveva essere così. Il povero Markus si era innamorato di lei. Lei non aveva fatto nulla per incoraggiare il suo amore. Anzi forse, senza volerlo, era andata oltre e aveva manifestato, chissà, insofferenza o fastidio per certi suoi atteggiamenti. Sentendosi rifiutato, Markus aveva deciso di sparire dalla circolazione, cacciandosi apposta in un dannato casino: il classico gesto assoluto e disperato di chi sente di non avere più nulla da perdere, avendo già perso ciò che gli importava di più. Conoscendo Markus, tutto questo era perfettamente – e tragicamente – verosimile.
Quella sera stessa, Antonia andò alla biblioteca comunale, subito prima dell'ora di chiusura. Salì al terzo piano, percorse con passo rapido e leggero le due grandi sale della Filosofia e della Sociologia senza quasi far scricchiolare il vecchio impiantito d'assi del pavimento, si fermò nel corridoio che portava agli uffici della Direzione, spalancò l'enorme antica finestra in stile neoclassico e fece per buttarsi di sotto. La mano del custode del terzo piano, che la afferrò quando era già in piedi sul largo davanzale di pietra, le strinse così saldamente una coscia, appena sotto l'inguine, da lasciarle per sempre un segno rossoscuro indelebile a forma di piccolo ragno.
Raccontò tutto questo a Yassoufi, su quella spiaggia di Arromanches–les–Bains battuta dal vento, mentre la scortava nel ritorno verso l'albergo tenendole un braccio sulle spalle. Quando ebbe terminato, lui si fermò, la fissò per un istante e poi disse, sollevando lo sguardo in un punto sopra e dietro di lei, distante:
– Non capisco, come hai fatto a sentirti in colpa? Tu non eri responsabile di niente.
– Io mi sento in colpa. Non ho mai smesso di sentirmi in colpa.
– Ma perchè?
– Per versare il saldo dell'intera somma, dobbiamo versare il nostro patrimonio. Serve il saldo dell'intera somma.
– Non parlare per enigmi.
– Sei tu che non capisci. Io l'ho ucciso. Quel tizio aveva ragione.
– Non me ne hai mai parlato prima.
– Ma era una cosa appena fuori dall'inquadratura. Me l'hai fatta ritrovare tu adesso.
– Non ci credo, ti sei inventata tutto. Non è così? Stai facendo la melodrammatica. Ti viene bene ultimamente.
Antonia si portò le mani alla faccia. C'era davvero odore di sangue lì intorno o se lo metteva in testa? Poi con gesti rapidi arrotolò l'orlo della giaccavento, si voltò a tre quarti e abbassò i pantaloni solo da un lato, fino a mezza coscia. Il ragno rosso spiccava ancora sulla carne pallida, appena sotto la piega di una natica.
– Non lo hai mai visto Yassoufi? Guardalo. Guardalo. Non mi conosci così bene. Dove guardi quando mi guardi?
Yassoufi indietreggiò spaventato di alcuni passi e fu lì che, rifuggendo con lo sguardo da lei e da quel piccolo marchio che sembrava impresso a fuoco sulla pelle, voltandosi verso il mare tumultuoso, ma alzando apposta la voce per non farla disperdere dal vento, fu lì che disse, sopra tutti i rumori, sopra tutti i batti e ribatti metallici, sopra le urla e le grida e gli scoppi che ancora risuonavano intorno, sulla famosa spiaggia del famoso sbarco, fu lì che Yassoufi disse con un tono di voce che percosse Antonia come uno schiaffo e che le bruciò poi a lungo come una ferita aperta:
– TU NON PUOI GETTARMI ADDOSSO TUTTO QUESTO!
Quanto tempo era passato? Una decina d'anni, più o meno, ma il tono maligno con cui lui aveva pronunciato quelle parole, in un grido strozzato, acuto, stridulo, non lo aveva mai dimenticato.
– Era il tono, Yassoufi. Era il tono della tua voce. – ripetè con calma mentre Ree continuava a trovare ragnetti sul pavimento. Girò lo sguardo fuori dalla porta finestra: si disse che quella primavera avrebbe dovuto far rifare i legni dei balconi. Il sole e le intemperie li avevano scoloriti. Il legno, quando scolorisce, diventa grigio.
Quando tornarono di sotto, Fatima stava ricaricando la sua penna stilografica con una nuova cartuccia di colore blu. Aveva le dita macchiate di blu. Un piccolo sbaffo blu sulla guancia. Antonia la guardò con sincera gratitudine.
– Come si fa a leggere libri su Dio? – domandò Fatima.
– Quale Dio?
– Il nostro, il vostro. Quello di papà. Che importa quale? Che razza di domanda è, mamma?
– Chiedilo a tuo padre, lui ha sicuramente una bibliografia molto precisa da consigliarti. – Non c'era traccia di ironia nella sua voce, almeno non le sembrava. In ogni caso, Fatima scoppiò a ridere.
– Una bibliografia molto precisa, sì. E' tipico di papà.
– Perchè ti interessa l'argomento?
La ragazza si rifece seria: – Arriva un momento nella vita che si fa un bilancio del pieno e del vuoto. Ho bisogno di sapere di più su tutto questo.
Antonia si trattenne dal ridere. Parlava sul serio, a quanto pare. Notò che nello sguardo sua figlia aveva la stessa sfida con cui lei da ragazza affrontava la vita, ma senza la sua condiscendenza, priva di quella sfumatura divertita che, Antonia ne era sicura, era scomparsa da un bel pezzo anche dai suoi occhi.
– E' questo quello di cui ci occupiamo, in fin dei conti, no? Fondamentalmente. Dio ci attende sempre al varco. E' la sua vendetta tardiva, credo.
Antonia ebbe l'impressione che tutta quella faccenda fosse un po' più complicata di quanto sua figlia non volesse darle a intendere. Un giorno Fatima – avrà avuto sei o sette anni ed era tarda primavera e loro due erano in quella stessa cucina a progettare le imminenti vacanze al mare – la guardò sinceramente entusiasta e sgranando gli occhioni scuri le disse: – Sai perché adoooooro andare al mare? Perchè per tutto il tempo che sto in macchina posso coccolare le mie bambole – e siccome sua madre stava lì senza dire nulla, aggiunse: – Capisci mamma? Avrò finalmente tutto il tempo che voglio per dedicarmi a loro!
Ad Antonia era parsa un'argomentazione bizzarra: sua figlia passava ore ed ore, tutti i sacrosanti giorni, con le sue bambole. In realtà durante quei viaggi Fatima non vedeva l'ora di arrivare in albergo e di correre sulla spiaggia a giocare con la sabbia, a tuffarsi in acqua, a giocare con gli altri bimbi (non con Reza, da cui la separava una distanza siderale fatta di silenzi e di incomprensioni e di limpide vastità incolmabili). Dirottare l'attenzione sul viaggio in macchina e su quanto piacevole cercava di farselo sembrare, ogni anno, in realtà era un diversivo, una finta strategica per non corrompere con il suo stesso entusiasmo il suo piccolo sogno gioioso. Così doveva essere anche adesso, stabilì Antonia. Questa strana faccenda di Dio eccetera. Fatima percorreva strade oblique, pensò Antonia. Ma non era stato così anche per lei, un tempo? Si sentì interrogata dal suo sguardo. Provò a cercare qualcosa di sensato da dirle, ma rimase zitta. Cosa c'entrava Markus, il povero Markus privilegiato e defraudato, con il cielo velato di quella mattina, con la pioggia di ragnetti e con la calma sempre eccessiva di Yassoufi–che–non–era–più–lo–stesso dai tempi del ricevimento all'ambasciata? Doveva ricominciare a pensare anche lei in modo obliquo. Doveva sforzarsi di farlo.
Forse era questa la vendetta tardiva, avrebbe detto Fatima, del suo personale destino.
Poi afferrò una delle due buste che erano arrivate quella mattina e che giacevano ancora sul tavolo. Era la busta gialla e grande. Sopra c'era un timbro blu dell'Azienda sanitaria provinciale. La tenne fra due mani, appoggiata contro il grembo. Aspettò che Fatima uscisse dalla cucina per andare a lavarsi le mani. Aspettò che un tiepido raggio di sole transitasse fino a lei. Aspettò che il marito facesse la sua comparsa nella cornice della porta.
– Ho un tumore. – disse. La busta gialla scivolò a terra.
Perchè si dice avere delle responsabilità? Lei non sentiva di averne. Non più.
Aspettò che Yassoufi si sedette pesantemente su una sedia. Ebbe l'impressione che, assieme a lui, tutta la casa si sedesse, si ripiegasse su se stessa con un rumore sordo. Aggiunse solo, con il tono non di chi apre, ma di chi chiude, definitivamente, il discorso:
– Un tumore maligno.
Ecco cosa sappiamo, pensò Antonia fermandosi in mezzo alla classe, che tutto è collegato.
Infine bussarono alla porta: una testa pelata e rubizza fece capolino. Tutti guardarono nella sua direzione. Il bidello esitò un attimo prima di entrare, poi raggiunse la cattedra e depositò un fascicolo di fogli legati da un grosso elastico. Nel tornare verso la porta si mise a camminare esageratamente in punta di piedi, come nelle comiche. La classe scoppiò in una risata. Ad Antonia non dispiacque l'intermezzo e ringraziò con lo sguardo, in silenzio, quell'apparizione. Poi si accostò alla finestra e guardò di sotto. La scuola dava su una piazzetta del centro storico. Dalla parte opposta, ai piedi di un vetusto palazzo dell'Ottocento annerito dallo smog e dalla polvere, c'era un piccolo negozio di orologeria. Il cielo si era rannuvolato e aveva cominciato a piovere. Un tizio uscì dal negozio e anzichè aprire l'ombrello lo tenne dritto avanti a sè, come se impugnasse una spada, e fece l'atto di duellare con un passante. Poi trotterellò fino al vicolo nell'angolo, esattamente come se stesse cavalcando un destriero, finchè scomparve dal campo ottico di Antonia, che ringraziò per l'ultima volta il cielo. Capita di vedere cose strane in una piazzetta grigia in una mattina piovosa, pensò.
Maltempo
Si poteva trattare di questo: uno di quegli espedienti inventati per facilitare la vita domestica. Mentre veniva introdotto nella veranda dall’infermiera – come si chiamava? questa era nuova, ma tanto ormai gliene cambiavano una a settimana – la porta a vetri si aprì davanti a loro con un ronzio sommesso: contemporaneamente il volume della tv schizzò in alto. Le due cose potevano essere collegate. Luis stabilì che non averlo avvisato era stato un atto di pura maleducazione, ma non disse nulla. Avvertì l’ingiustizia della situazione con la rassegnazione di chi è ben conscio di avere perso ormai ogni controllo sulle cose. Una voce femminile cercò di sovrastare il baccano che prorompeva dal televisore. Luis si voltò quel tanto che la sua condizione gli consentiva, ma fece in tempo a cogliere solo qualche parola: sceneggiato, puntata, perduta.
– Che hai detto? – interrogò l’infermiera. La ragazza gli mise una mano sulla spalla mentre si abbassò per parlargli a pochi centimetri dall’orecchio. Lui ne sentì il calore da sotto il tessuto della camicia. E la presa: non particolarmente forte, ma inconsueta. Come se tentasse di inviargli un segnale. In questo momento non sono in grado di ricevere visite, tesoro, ridacchiò fra sé. Sembrò che lei gli avesse letto nel cervello, perché ritrasse la mano di scatto.
– Zignioooora dice che non ricordata accendere tv e così perso puntata suo scenegiato – riferì d’un fiato.
Ewa, doveva chiamarsi Ewa. Luis si domandò da quale regione della Polonia venisse. Era certo di averglielo già chiesto, per cui si guardò bene dal riformulare nuovamente la domanda. Anche l’infermiera precedente era polacca, si chiamava Franziska, Franciszka o qualcosa del genere, ma a differenza di questa qui parlava un italiano eccellente, praticamente senza inflessioni. Franziska o come diavolo si chiamava perciò era di gran lunga l’infermiera a cui lui avesse assegnato il punteggio più alto nella classifica del suo personale gradimento, oltre al fatto che non lo obbligava a prendere il consueto chilo–e–mezzo di pillole al giorno e al contrario di Ewa era di una bellezza veramente notevole. Per di più veniva da Danzica, città in cui il nonno di Luis aveva vissuto per quarant’anni facendo il carpentiere. Il vecchio era emigrato da un paesino del Tirolo sul finire dell’Ottocento. Ora, perché diamine uno scegliesse di emigrare in Polonia per cercare fortuna, questo Luis proprio non se lo spiegava.
– Oh. – commentò Luis, lasciando ricadere il capo fra i poggiatesta della carrozzina. Fece passare qualche secondo, cosa che gli consentì di deglutire a fatica. Poi urlò:
– CHE TE NE FAI DI SAPERE COME PROCEDE LA STORIA? – deglutì ancora – Lo sai che non finirà mai. Nessuno si sogna più di scrivere una storia con una fine, oggi. Troppo facile, quando si conosce già la fine di tutte le storie…
Ma Ewa era una donna probabilmente avvezza a ogni intemperie. Lo parcheggiò in veranda: l'aria fresca della mattina di inizio estate lo investì in pieno: era fuori, fuori, fuori. Aria aria aria! Uno spiraglio di sole bucava l'ammasso di nubi e cadeva obliquamente sul pavimento di piastrelle marroni sollevando spirali di polvere fra le grandi azalee e i gerani, sotto cui erano stati ammonticchiati alcuni plichi di vecchie carte. Charlie, il vecchio siamese castrato, sonnecchiava su una poltroncina sfondata di raso celeste. Dal giardino di sotto arrivava un fastidioso odore di legna bruciata. Luis allargò ugualmente le narici. Inspirò profondamente. La veranda stava al secondo piano della casa. Il giardino confinava con un boschetto selvatico, un intrico di arbusti e rampicanti che declinava verso una piccola forra, da cui proveniva lo scroscio di una cascatella. Molto più lontano, dal fondovalle, arrivavano invece i soliti rumori della zona industriale, oltre a una sirena intermittente e acuta che Luis non aveva mai sentito prima. Sembrava un allarme, forse di un'auto.
La moglie lo raggiunse mentre tentava di scrollare dal mento un insetto che gli stava camminando nella barba.
– Non mi piace, Luis.
– Che cosa non ti piace, Anna? – ormai l’insetto gli stava entrando in un orecchio. Sentì che l’infermiera indietreggiò di un passo. La voce stridula di suo figlio Bernardo annaspò alla ricerca di un saluto. Aveva quattordici anni e da pochi giorni aveva stabilito che quella era l’età giusta per sabotare la propria esistenza. Il ragazzo sfilò accanto a loro, senza neanche guardarli, e sprofondò nella sedia a sdraio, allineando i piedi sul tavolino basso dove Anna tentava di coltivare con scarso successo una cassetta di erbe aromatiche.
– Questo tempo. Mi dà sui nervi.
– Il tempo cosa?
– TUT–TO QUE–STO MAL–TEM–PO, Luis. E spegni quel coso Franci!
– Ewa. Questa si chiama Ewa.
L'infermiera farfugliò che non capiva e non si mosse. I passi pesanti di sua moglie: improvvisamente il fragore della tv cessò. Quando tornò da lui, Anna sembrò in preda a una calma tragica. Come di chi abbia appena compiuto un delitto e assapori la macabra consapevolezza del proprio destino.
– Questa domenica voglio andare su al passo – borbottò.
– Vuoi andare dove, Luis? – Adesso Anna si era messa in ginocchio davanti a lui, con i gomiti appoggiati sulle sue gambe. Poteva sembrare un quadretto romantico, ma lo sguardo di lei lampeggiava. Ma che aveva di strano? La faccia di sua moglie: più la fissava e più Luis si chiedeva che cosa avesse di strano. Il giorno prima l'aveva perfino guardata con sospetto. Pensò con un brivido che tutto questo avesse a che fare con la sospensione delle medicine.
Il giorno prima era stato un giovedì, oggi era venerdì. Se lo appuntò in testa.
– Su al passo.
Istintivamente, le loro teste si girarono verso la cima della montagna, che però era coperta dalle nubi. Era una montagna bassa, tondeggiante. Ci saliva una strada impervia. Il passo era poco più sotto della cima: dall'altra parte la strada scendeva e si allargava. Dove portava, Luis non lo sapeva. Non erano mai andati oltre. Non sapevano nemmeno i nomi di quei posti. La montagna era la montagna e basta. Il passo era il passo. Lassù c'era una piccola baita, sempre aperta, dove si poteva mangiare un piatto caldo. I pasti erano cucinati da una vecchia contadina che aveva un figlio deficiente. Il ragazzo passava il suo tempo a ricavare suoni strani da un'armonica a bocca. Sui prati circostanti crescevano dei fiori a forma di stella. Luis non ne aveva mai visti altri del genere. Piccoli fiori argentati a forma di stelle. La baita poteva contenere al massimo cinque o sei tavoli. Luis e Anna non avevano mai trovato altri clienti oltre a loro. La cucina era un bugigattolo dalle pareti annerite che odorava di fumo e di cipolle. La vecchia cucinava con l'energia pratica delle donne di montagna, che hanno visto le madonne spuntare dietro i campi arati di fresco nei giorni delle processioni di maggio e a lei si sono votate da ragazzine per averne in cambio una vita di fatiche e di orizzonti sghembi, quasi sempre carichi di nubi minacciose. Per raggiungere la baita si doveva procedere a piedi lungo un comodo sentiero sterrato che entrava nel bosco umido. Il sentiero confinava con un ruscello. Sul primo slargo erboso era stata eretta una lapide. Diceva che una bimba era morta annegata in quel ruscello, un giorno d'estate di tanti anni fa. La bimba si chiamava Klara. Davanti alla lapide c'era sempre un mazzo di fiori freschi. L'ultima volta che c'erano stati Luis si reggeva ancora abbastanza bene sulle sue gambe.
– Ma hai visto il tempo?
– Oggi è venerdì. Domenica è dopodomani. O no?
– Sì Luis, domenica è dopodomani. Hanno previsto schifo fino a lunedì. E poi, con questa... – Anna si alzò di scatto, senza terminare la frase.
– Questa – sibilò Luis, battendo i palmi delle mani sulle ruote della carrozzina – questa non sarà un problema. Potrebbe venire con noi anche Ewa, così mi spingerà lei. Ehi lo senti? Questo è un cuculo.
– Franciszka. Non c'è nessuna Ewa. E io non sento nessun cuculo.
– Zitta. Ascolta. Cu–cu. Cu–cu. Cu–cu.
– Non sei divertente.
Bernardo riemerse dal suo torpore: – Figo. Su al passo ci sono i minerali. Pieno di quarzi lassù.
Da qualche mese aveva deciso di cominciare una collezione di minerali. Luis si domandò se per caso non fosse stato lui a spingerlo a raccattare cose da terra. Forse da piccolo anche a lui piaceva collezionare sassi? Non se lo ricordava. Lo fa per opporsi alle forze cupe che dissolvono il mondo, pensò Luis. Ne conserva un pezzettino alla volta. Dovremmo farlo tutti. Finisce che gli daranno il Nobel, a quell'ebete.
Anna allargò le braccia: – Ecco! – disse soltanto. Poi guardò l'orologio. Si avvicinò a Ewa. Luis la sentì dietro di lui che sussurrava qualcosa alla ragazza. Tastò con le dita sul lato destro della carrozzina, dentro una piccola sacca. Estrasse il pacchetto delle sigarette. Cautamente, ne mise in bocca una senza accenderla. Quando si girò, quel tanto che bastava per inquadrare nel campo visivo un pezzo di camice bianco dell'infermiera, capì che sua moglie non c'era più.
– No no no, questo non buona cosa per lei, zignore! – La mano grassoccia e profumata di sapone alla lavanda dell'infermiera agguantò la sigaretta e la gettò lontano, giù per il giardino o addirittura nella forra del boschetto. Luis non si scompose. Faceva parte di una schermaglia prestabilita. Annusò l'aria.
– Secondo te, dopodomani pioverà?
Ewa disse qualcosa del tipo e io che ne so, ma in quel suo bizzarro miscuglio di italiano e polacco. Superò la carrozzina e si appoggiò al corrimano della terrazza. Era una donna sui trenta, trentacinque anni, di bassa statura, piuttosto tozza. Una massa funghifera, pensò Luis. Era sicuro che, per quanti sforzi avesse fatto, non sarebbe mai riuscito a penetrare nel mistero di chi lo circondava. Ewa, tutta quella accozzaglia di medici che ogni settimana lo sottoponevano a umilianti sedute di palpazioni e di autoanalisi con mille spilli dentro la testa, perfino sua moglie, non parliamo poi di Bernardo. Quanto è profondo l'animo umano? E quanto passato occorre mettersi alle spalle per riuscire ad accettare il proprio presente?
Ewa si girò e lo guardò sorridendo:
– Non è buona cosa questa qua.
– Cosa, questa qua? Ah, la sigaretta. Tanto non l'avrei nemmeno accesa, lo sai.
– No zignore, questa qua. – Sempre sorridendo, Ewa si avvicinò a lui puntandogli contro il dito indice. Gli toccò il punto mediano fra gli occhi (il terzo occhio! pensò Luis) e indietreggiò come se stesse tracciando una linea immaginaria. Si girò a trequarti e il dito finì la sua corsa contro una natica. Ewa scoppiò in una fragorosa risata. Luis socchiuse gli occhi, lasciò che la figura rotonda in camice bianco svaporasse sprizzando scintille contro il cielo plumbeo.
Doveva andare su al passo. Gli avrebbe fatto bene. C'era un'atmosfera sospesa da quelle parti. Una volta, quando lui stava ancora benone, c'era andato con una donna (possibile che non fosse sua moglie? Il problema, ancora una volta, era la faccia).
– Quando arrivi al passo devi lasciare la macchina e proseguire a piedi – spiegò Luis. Ma Ewa non si girò neppure. Luis proseguì: – Il sentiero per la baita inizia lì. Appena lo imbocchi e sei ancora fuori dal bosco vedi nel prato una grande piazzola tonda con in mezzo una grande H. Serve agli elicotteri in caso di emergenze. Chi si è fatto ammazzare? – La sirena ululava ancora: Luis provò a tapparsi le orecchie, ma quel lamento lancinante si sentiva lo stesso. Forse era dentro di lui. – Nessun morto, bene. La sirena suona a vuoto.
Chiuse gli occhi. L'aria fresca che montava dal giardino risaliva tutto il dorso della montagna. La sentiva, anzi la vedeva percorrere il profilo degli abeti, piegandone le cime, sfilando a uno a uno i grani del rosario del tempo fino a ruzzolare lassù, sul pianoro del passo. C'è solo un tipo di verde, pensò. Sono le sfumature a fare la differenza. Chissà come lo vede un tasso. Per noi un colore è un colore, ma per lui è in fondo una questione di sopravvivenza. Lei quel giorno gli disse: – E' una bella fregatura essere saliti fin quassù e non avere dietro una machina fotografica. – Voleva fargli delle foto. Era una ragazza leggera, i capelli sottili e neri raccolti tutti dentro un berretto di lana. Perciò era inverno. Luis non faceva più caso d'altronde alle differenze di stagione. Magari quella ragazza non era neppure Anna, ma anche questo a ben vedere poteva fare poca differenza ormai. – Fammi dare un'occhiata... – Fu lei a scoprire la piazzola per gli elicotteri. Deviarono dal sentiero. Dovettero procedere a passi alti, perchè il prato era una mezza palude. Quando finalmente arrivarono al grande tondo in cemento grigio si abbracciarono. Tirava un forte vento gelido, Luis se lo ricordava bene come se fosse oggi. L'abbraccio diventò una specie di danza. Forse lei si mise a canterellare qualcosa, sta di fatto che alla fine ballarono davvero e Luis, che a ballare era sempre stato negato, disse che quello, di tutti i balli, era davvero il ballo perfetto.
Stavolta per la solita riunione settimanale del lunedì il Responsabile della Casa aveva radunato tutti giù nel grande piazzale. Faceva caldo, anche se nel fine settimana precedente aveva piovuto. Un maltempo passeggero che aveva lasciato spazio nuovamente all'afa. Il piazzale era dedicato a Sant'Onorio, notò Anna. C'era una statua del santo, dietro di loro, dentro un'aiuola curatissima, stracolma di fiori. Accavallò cautamente le gambe. Gli altri era seduti come lei in semicerchio su vecchie sedie di ferro brunito. In totale gli operatori erano venticinque, disse soddisfatto il Responsabile, dopo averli segnati uno a uno col dito mentre contava.
– Avete caldo? No? Ottimo, cominciamo. Diamo lettura del verbale dell'ultima seduta. Lascio l'incombenza al nostro Segretario. Grazie.
Si alzò un ometto dalla testa pelata, sudatissimo. Si passò un fazzoletto sulla fronte e attaccò a leggere con una vocetta stridula, quasi d'un fiato: – Sì, dunque, ecco... Al punto uno vengono presentati i preventivi della Tipografia Sinibaldi & soci per la stampa della newsletter NOI ALZHEIMER richiesti per ridurre i costi visto il periodo di crisi economica. Dopo diverse discussioni si delibera di mantenere una veste tipografica di costo contenuto anche se accettabile. Al punto due l'esperto informatico signor... signor... – l'ometto si fermò con aria sinceramente contrita. – Mi dispiace, non si legge bene – disse. Passò di nuovo il fazzoletto sula fronte grondante. Qualcuno degli operatori gli tirò una palla di carta. – Accenditi una Lucky. E' ora di godersela – disse un altro, ridendo. L'ometto proseguì: – Il signor X ha revisionato e rifatto il nostro sito web rendendolo molto più completo e funzionante. Poiché il lavoro è stato fatto a titolo gratuito, il professor Caracristi chiede se sia il caso di dare un compenso forfettario. Punto tre, il prezzo per la cena sociale del 12 luglio concordato con il Golf Club è di trentasette euro. Cadauno, s'intende.
Il Responsabile del Centro gli si avvicinò, imponendogli una mano sulla testa. Guardò tutti e disse: – E' necessario spostare l'appuntamento mensile con i famigliari, che verranno avvertiti alla fine di questo mese. Per l'intrattenimento è stato contattato il Maestro Airoldi, docente di fisarmonica al conservatorio. Il compenso richiesto è di duecento euro. Sarà presente l'intrattenitrice dello scorso anno. Grazie Segretario, mi pare tutto. Altro? Domande?
Lo sguardo del Responsabile cadde sulla faccia di Anna, che lo stava osservando distrattamente. – Ah sì, scusate. Prima di entrare nel merito della seduta odierna, vorrei ricordare un caro paziente che se n'è andato l'altro ieri, sabato. Anna e Bernardo, siete stati avvertiti vero che...?
Anna divenne paonazza. Fece segno di sì con la testa. Bernardo, accanto a lei, rigirava un sasso fra le mani. Annuì anche lui.
– Il povero signor Luis Stieghofer mancherà molto a tutti noi. – La faccia del Segretario era diventata tutta seria. – Anna, vuoi raccontarci qualcosa su di lui? Se non sbaglio tu e Bernardo nelle ultime settimane lo avete seguito più da vicino degli altri.
Anna non si alzò. Tirò l'orlo della gonna per sistemarla sul ginocchio e disse: – Luis era ormai in uno stadio molto avanzato. Anomia, parafasia verbale, disprosodia affettiva, logopenia: aveva passato tutte le fasi canoniche. Ogni tanto aveva qualche sprazzo di lucidità. Un giorno, appena la settimana scorsa, mi ha chiesto: io sono pazzo? Sai Anna, la parola non vuol dire un cazzo se non la prendi nel suo significato pieno.
Ci fu un momento di trattenuta ilarità fra i presenti.
– Scusate la parola.
– Vai avanti Anna, non importa.
– Sant'Onorio mi perdonerà?
Qualcuno rise più forte. Anna proseguì:
– Venerdì scorso era diventato davvero insopportabile... Oh scusate. Un'altra licenza. Ma penso che chiunque abbia avuto a che fare con... Insomma, ci siamo capiti... Non era un tipo facile. Venerdì mi ha detto che voleva andare su in montagna, parlava di un passo, non ho ben capito. Gli ho fatto notare che era brutto tempo. Volevo testare il suo stato di perseverazione verbale. Come era facilmente prevedibile, la comunicazione era divenuta pressochè impossibile.
– ... e qui non serve, vero, che io vi rammenti il famoso caso della paziente Auguste D. del dottor Alzheimer... – la interruppe il Responsabile, che staccò la mano dalla testa del Segretario dove ancora la teneva e la impose stavolta su tutte le teste, tenendola aperta davanti a sé. – Il commento finale che scrisse Alois Alzheimer nella cartella clinica è emblematico: Alla fine, non era più possibile alcuna forma di conversazione con la malata. Scusa Anna, va avanti.
Ma Anna non proseguì. Fece un cenno con la testa, come a dire: ho finito, non ho altro da aggiungere. Piegò la testa su una spalla, stirando le braccia in avanti. Un altro operatore alla sua destra avvicinò la testa alla sua e le sussurrò: – Noi non siamo veri. Loro sono solo dei bambini disperati. Hanno la possibilità di essere veri e non lo sanno. – Dopodichè sbadigliarono entrambi, l'uomo e Anna, all'unisono.
ilraccontodelmesediaprile2013
La vendetta tardiva
– Tutti ci conformiamo al disastro che arriverà – spiegò Antonia alla classe, asciugandosi l’angolo della bocca con la punta di un kleenex. – Per questo ci consoliamo e maturiamo.
Aveva chiesto ai suoi studenti di scrivere un breve testo sul tema della vendetta tardiva. Adesso tutti la guardavano con aria stupita. Corresse nervosamente la scriminatura sghemba dei capelli. Odiava sentirsi infilzata dagli spilli di quegli sguardi.
Che idea stupida, si disse fra sé. La vendetta tardiva e il disastro imminente: considerò brevemente la coppia di elementi che era riuscita a costituire così praticamente dal nulla e assegnò a ciascun elemento un nome. Lei, Antonia, era il sasso nero, il più leggero. I disastri sono sempre leggeri, in fin dei conti. Saggiò per qualche attimo il silenzio teso che aveva creato nell’aula. Avvertì un piccolo brivido di potere: se non altro, era riuscita ad ammutolire quegli scalmanati. Il bello adesso era trovare un filo logico che chiudesse il cerchio di quel ragionamento.
Una ragazza della seconda fila era seduta al proprio banco con il corpo proteso in avanti come se dovesse alzarsi e andarsene da un momento all’altro. Fatti guardare bene, ragazza–seconda–fila. Sul palmo di una mano si era scritta qualcosa con la biro. Poteva essere una formula matematica. Portava occhiali enormi e aveva un vistoso neo scuro al centro di una guancia, simile a una mosca. Ad Antonia venne quasi la tentazione di sventolare una mano per scacciarla. Il suo compagno di banco masticava lentamente una gomma. Fissava un punto imprecisato sopra la testa di Antonia. Dimostrava molti meno dei suoi probabili diciassette anni. Se la faceva con la compagna di banco, questo era noto a tutta la classe. Lei però sembrava molto più matura, non solo fisicamente. O forse era solo l’effetto del suo prorompente seno, che le conferiva un’aria matronale e adulta?
– Naturalmente, questa prova vale per il voto finale del quadrimestre – annunciò Antonia, tornando sui suoi passi. Una precisazione del tutto inutile: ogni studente di quella scuola sapeva perfettamente che le tesine di fine quadrimestre rappresentavano per la professoressa Forrer Aazar (che aveva abolito d’ufficio l’interrogazione orale) l’unico elemento di giudizio nei loro confronti. Questa cosa per poco non le aveva causato un guaio con il consiglio dei docenti, qualche tempo addietro. Solo il preside Gooderson – un olandese trapiantato da molti anni in Trentino, grande giocatore di scacchi e grande puttaniere – aveva avuto la decenza di difenderla, a denti stretti.
– Diamine, Antonia, almeno inventarti un’interrogazione ogni tanto, anche solo per finta. Sai come sono fatti “certi” lì dentro – le aveva detto aggiustandole il colletto della camicia prima di introdurla con una manata sulle spalle nella Sala dei docenti, annunciandola alla schiera dei colleghi già equamente distribuiti dietro al tavolo ovale, da una parte i colpevolisti e dall’altra i quasi–innocentisti.
Ad ogni buon conto, Antonia era convinta che i concetti ripetuti più volte acquistino nel tempo una loro forza persuasiva. Ebbe cura anche, mentre formulava l’annuncio alla classe, di calcare la pronuncia delle ultime parole. Sapeva che questo avrebbe aumentato in loro il grado di soggezione. Una questione di temperatura, si disse.
Diresse lo sguardo fuori dalla finestra. Il cielo era velato. Lo aveva annunciato solennemente suo figlio quattordicenne Reza quella mattina, appena sveglio, con gli auricolari dell’ipod già incastonati nelle orecchie – probabile che non se li fosse levati neppure per dormire – e costringendo perciò la sua voce a salire di parecchi toni, più di quanto Yassoufi, il marito di Antonia, considerasse dignitoso e civile. Alcune regole, personalmente dettate da lui, venivano osservate da tutti con la stessa incredibile rigidità con cui molte altre venivano costantemente ignorate: Yassoufi si chiedeva spesso se questo poteva rappresentare un efficace paradigma di ciò che gli occidentali del ventunesimo secolo chiamano democrazia. Da qualche tempo Reza aveva preso l’abitudine di informare la famiglia, dopo essersi alzato, sulle condizioni meteo del giorno. Sembrava sinceramente molto interessato a quello che poteva capitargli sulla testa dopo che fosse uscito di casa. Il fatto di non riuscire quasi mai a suscitare il medesimo interesse negli altri abitanti della casa – nemmeno in Fatima, che era pur sempre sua sorella gemella – lo irritava tantissimo.
– Sapete cosa vi dico? Il vostro silenzio mi sembra inopportuno.
Oh, aveva detto proprio così Ree? Inopportuno: Antonia considerò e riconsiderò quella parola, passeggiando nell’aula su e giù per lo stretto corridoio formato da due file appaiate di banchi, ma non riuscì a quadrarla nel cerchio di un banale deficit di attenzione. Fece aprire i quaderni:
– Vendetta tardiva e disastro imminente. Quale collegamento vi suggeriscono questi due concetti?
Ma sì, pensò, che se la sfanghino da soli: dopo tutto, è un bene che comincino da qui, dai salti mentali in apparenza inconciliabili.
– Improvvisate – aggiunse, confidando di accattivarseli un po’. Per un istante meditò di stuzzicarli con il discorsetto sul Logos in continua evoluzione come i temi musicali nella musica jazz, ma che ne sanno venticinque brufolosi adolescenti oggi della musica jazz?
Ad ogni buon conto, Reza era anche un ragazzo dalle mille risorse. Se non riceveva l’attenzione che gli sembrava adeguata, si industriava. Quella mattina, fece scivolare tra sé e la sua famiglia una manciata di minuti, carichi di imperscrutabile indignazione, poi lo si sentì cacciare un urlo dalla sua camera al piano di sopra:
– PIOVONO RAGNETTI!
Antonia, che aveva appena ricevuto dalle mani del postino due buste, una gialla e grande, l’altra bianca e più rettangolare sul tipo delle buste che si usano per la corrispondenza di un ufficio, stava ritornando in casa a passo lento, con le braccia tese davanti a sé e le due buste nelle mani, una per parte.
– No, non è un’emergenza in senso stretto… – L’unica cosa che a Fatima dava sui nervi era dover ripetere due volte lo stesso concetto. Yassoufi invece ci si divertiva un mucchio.
– Non incalzarla, Yassoufi. Ci stai provando un gusto sadico. – Antonia sciolse il passo da sonnambula, aprì e depositò le buste sul tavolo (per la precisione, le adagiò con cura appaiandole l’una accanto all’altra, come le carte dei tarocchi), ma c’era un lembo di nube sui suoi occhi, notò di sfuggita suo marito, con la voce ancora impastata di sonno.
– Quanto a te, che fine hanno fatto i venti euro che ti ho sganciato ieri?
L’uomo, che stava seduto al tavolo della cucina esattamente di fronte a Fatima, smise di tormentarla con un dito ogni volta che la figlia provava a oltrepassare il confine immaginario della sua parte di tavolo per la consueta cerimonia dell’imburramento delle fette di toast e rivolse alla moglie uno sguardo interrogativo. Antonia alzò le sopracciglia in segno di resa:
– Ok ok, ieri abbiamo riaperto la cassa. Ma ieri era un’emergenza, non è vero? – La figlia annuì.
Yassoufi lasciò ricadere pesantemente il dorso della mano sul ripiano del tavolo. Decise di cambiare registro. Gli venne fuori una sorta di perorazione sarcastica, un po’ troppo scopertamente melliflua, ma ad Antonia piacque molto:
– Piuttosto, occupiamoci dell’ennesima ge–nia–la–ta dell’altro tuo figlio.
Una criniera ispida e nera, con dentro una faccia rovesciata, apparve dalla cima della scala. Reza sembrava realmente molto divertito.
– Ragnetti? – si domandò oziosamente Fatima, senza neppure girarsi. Le avessero annunciato lo sbarco dei marziani nel cortile di casa, avrebbe tranquillamente continuato a imburrare la sua fetta di toast. Yassoufi restò con la mano riversa sul tavolo, fissando i rettangoli diseguali delle due buste. Quella gialla aveva un timbro di colore blu scuro nell’angolo di sinistra, in alto, ma da lì non riusciva a decifrarlo.
– OK, ADESSO IO E MAMMA VENIAMO SU A VEDERE – disse alla fine, alzando la voce, ma di poco, con la faccia rivolta al piano di sopra. E subito dopo, di nuovo guardando la figlia: – Ma della faccenda di questa sera riparleremo poi noi due. – Come unica reazione Fatima aumentò la frequenza dei passaggi del coltello sul burro.
Salendo la scala che portava in mansarda, Antonia lasciò passare il marito davanti e gli piantò lo sguardo sulla nuca. Appena il giorno prima, suo padre le aveva chiesto come andassero le cose con Yassoufi. Una domanda che, formulata così, senza una motivo apparente, poteva anche sembrare un po’ strana: a meno che, aveva concluso Antonia, in qualche modo suo padre non volesse introdurre uno dei suoi argomenti correlati preferiti, ovvero la sua situazione familiare, ovvero l’ennesima avventuretta sentimentale. Lei aveva risposto, istintivamente:
– Siamo sposati.
Il che naturalmente era vero e, come dire, inquadrava perfettamente e con mirabile sintesi la sua situazione. Ma era anche pur sempre, pensò, una risposta davvero cazzutissima.
In cima alla scala si fermò un secondo a guardarsi nella porta a specchio del vecchio armadio a due ante che avrebbero dovuto buttare al macero ancora dieci o quindici anni fa, cosa che nessuno naturalmente si era presa l'incombenza di fare. Si voltò a tre quarti per esaminare il proprio sedere. E’ lì che tutte marciscono, no? A occhio, non si era poi gonfiato tanto in tutti quegli anni. Forse le ampie spalle si erano un po’ incurvate, sicuramente aveva messo su dei bei fianchi, ma concluse di non essere poi tanto cambiata dalla ragazzona timida e impulsiva che Yassoufi aveva conosciuto ventidue anni fa al ricevimento dell’ambasciata italiana di Tel Aviv, per la ricorrenza del 2 giugno: una stangona bionda con il fisico da nuotatrice professionista (da ragazza era stata nella squadra nazionale di nuoto) e l’inconfondibile risata sguaiata sempre pronta che Antonia era abile nell’utilizzare come un’arma. Se ne serviva soprattutto per camuffare i frequenti imbarazzi – non era un’intellettuale, protestava spesso, usando questa parola con una punta di sarcasmo per indicare Yassoufi e la sua piccola schiera di amici che stazionavano regolarmente a casa sua e i cui discorsi complicati la mettevano a disagio – oppure per stroncare sul nascere le velleità degli idioti importuni che continuavano a ronzarle intorno, anche ora che aveva passato la quarantina e portava i segni di due gravidanze difficili che avevano riempito ulteriormente le sue forme. Aveva sempre avuto un aspetto poco femminile, che nel tempo lei stessa aveva contribuito ad accentuare tagliando i capelli molto corti e indossando sempre vestiti sportivi, larghe tute da ginnastica, jeans e pullover, scamiciati estivi dai colori pastello. Nell’abbigliamento si faceva prendere da infatuazioni stagionali. Recentemente l’India la faceva andare fuori di testa. Girava per casa, e non solo, con delle sottane bianche sfrangiate. Addosso al suo corpo statuario e così poco orientale le conferivano un’aria imperiosa, da antica divinità.
– C’è qualche possibilità che la cena abbia finalmente inizio? – Quella sera al ricevimento dell'ambasciata italiana a Tel Aviv il dottor Yassoufi Aazar, fresco di un master in filosofia ad Harvard e già autore di un paio di saggi su Kant che gli avevano procurato un discreto apprezzamento, malgrado la giovane età, nei circoli filosofici della East Coast, non aveva certo sperato di essere particolarmente originale, ma non aveva saputo cos’altro dire per agganciarla. Il tono era però quello giusto: gioviale e simpatico, del tipo ehi ragazza, se vuoi passare una serata senza troppi pensieri io sono qui. Aveva molto talento nell’improvvisare. E una incrollabile fiducia in se stesso.
Sul prato del giardino dell’ambasciata l’ultimo sole allungava le ombre, sorretto da un leggero vento che arrivava dal mare. Odori di cedri e di legno di sandalo. La villa non aveva un aspetto imponente. Dava più l’impressione di un lusso contenuto, sul modello di quello che si trova in certi begli alberghi: assai più che decorosi, certo, ma non ci abiteresti mai per lunghi periodi. Gli invitati chiacchieravano divisi in gruppetti più o meno omogenei. Sembrava che si conoscessero tutti. O fingevano bene. Antonia notò che quel giovane dai folti capelli nerocorvini e il fisico asciutto, allungato come un palo ritorto, continuava a fissare con un certo compiacimento la punta delle sue scarpe lucide, sicuramente appena acquistate, solo leggermente impolverate. Indossava un completo blu scuro che, come lui stesso le confessò qualche tempo dopo quando furono in maggiore confidenza, gli aveva prestato il vecchio BenBen, uno zio acquisito per parte di madre che aveva lasciato Teheran ben prima della Rivoluzione e si era trasferito prima in Libano e poi in Israele, dove aveva preso servizio presso la segreteria dell’ambasciata italiana. Quando Yassoufi aveva deciso a sua volta di andarsene dal suo paese, pochi giorni prima dell’arrivo trionfale di Komeini, l’unico posto al mondo in cui non avrebbe voluto andare era la casa di Ben Ben Mashud, che non gli era mai andato a genio, ma come disse alla moglie rievocando quei giorni realisticamente non ebbi alternative. Quello che voleva evitare soprattutto era di bussare alla porta di qualche consolato, in un qualsiasi paese dell’Occidente, e farsi appiccicare addosso l’etichetta di rifugiato politico o qualcosa del genere. Certo, non aveva in grande simpatia i barbuti custodi della Rivoluzione che erano spuntati come funghi in Iran subito dopo la caduta dello Scià, ma non era esattamente per quel motivo che se n’era andato, mollando famiglia, casa e amici.
– C’è qualche possibilità che la cena abbia finalmente inizio? – Il suo inglese era penoso, ma almeno sperava che potesse risultare, come dire, carino.
– Ce l’ha nel piatto – La voce di quella che gli era stata presentata come Antonia, ma di cui con tutta evidenza aveva già dimenticato il nome, aveva un inequivocabile tono da presa per il culo.
– Come ha detto, scusi?
– La cena. E’ quella che ha nel piatto.
Yassoufi rimirò il terzetto composto, nell’ordine, da una tartina tricolore, un vaul–a–vent e una pizzetta. Tutto rigorosamente freddo, s’intende.
Antonia aveva riso forte. Per la prima volta lui ne dovette apprezzare la famosa risata, la cui intensità e il cui timbro così mascolino attirarono com’era inevitabile l’attenzione di tutti e lei – com’era altrettanto inevitabile – avvampò di colpo. A quell’epoca non riusciva a controllare bene l’incendio che in un secondo poteva infiammarle il volto. Si sentì bruciare.
– Non sei mai stato a un ricevimento in un’ambasciata, eh? – all’improvviso dal lei era passata al tu e questo non lo aiutò assolutamente a superare la crisi.
– Lo so, sulle prime ci si resta malissimo. Si immagina sempre una cosa da Mille e una notte (oh scusa, non vorrei sembrarti inopportuna con una citazione dalla tua cultura…) e invece la realtà è che i ricevimenti vengono pagati con il budget personale degli ambasciatori e poi c’è una circolare che impone una certa misura, bla bla bla... – Dieci minuti dopo stava ancora riversando addosso a Yassoufi un fiume di parole in un inglese che per fortuna lui comprendeva a stento. Non avrebbe prestato comunque attenzione alle sue parole. Come le confidò dopo, decise che se ne era già innamorato perdutamente. Quando lei rifiatò, lui le prese una mano, la strinse fra le sue, sentì che era fredda e gliela scaldò, attraversò il suo sguardo pulito come un sasso incandescente in un cielo d'estate e le disse che la voleva sposare. Antonia sorrise, ma era più una smorfia che un sorriso vero, e per tutta risposta farfugliò qualcosa come mi dispiace davvero tanto, ma ho un problema di stomaco prima di scappare via in bagno a vomitare.
Quell’episodio, che non mancava mai di essere raccontato in casa Aazar come una specie di tormentone che ormai aveva sfiancato la resistenza anche degli amici più stretti, la fece sorridere ancora.
Nella cameretta di Reza c'era appiccicato ovunque un odore di sudore e di bimbo, malgrado ormai Ree non lo fosse già più da un pezzo.
– E allora, di che cosa si tratta? – la voce di Yassoufi risuonò brillante e quieta, come un vento caldo. Due occhi luminosi bucarono il buio dell'angolo in cui suo figlio si era rintanato. Il ragazzo fissò entrambi i genitori senza parlare, poi indicò qualcosa sul soffitto con un dito. Antonia non vide nulla. Andò alla finestra e tirò le tende. La luce inondò la stanza di colpo e fu come se tutto cambiasse aspetto all'improvviso. Reza si alzò di scatto, urlando: – MAMMA! – Sembrava realmente infuriato. – Quelli si vedono solo al buio. – Antonia incrociò le braccia, soffiando sul ciuffo che si ostinava a ricaderle sugli occhi. – Adesso basta, Ree. Farai tardi a scuola. – Suo marito si inginocchiò a terra e si rialzò tenendo qualcosa di invisibile fra due dita. – Ragnetti. – disse. – Il pavimento è pieno di ragnetti morti.
Reza chiamava la sua stanza il Consolatorium. Chissà dove era andato a prendere quella parola. Quella mattina la camera aveva più l'aria di un campo di battaglia. C'erano ovunque, in grande quantità e sparsi in giro, libri, vestiti, oggetti strani (Ree era un appassionato di meccanica). In un angolo, un vaso di peonie era stato rovesciato e parte della terra era sparsa sul pavimento. Tutti i cuscini del divanetto erano finiti, in modo impressionantemente simmetrico, sul tavolo da studio, ai due lati, in modo da formare una specie di piccola trincea. Sotto al tavolo c'era un motore di macchina o qualcosa che gli assomigliava molto (per quello che Antonia poteva riconoscere, lei che non capiva nulla di queste cose), ma mezzo smontato, con pezzi e bulloni e arnesi da lavoro disseminati tutt'attorno. Antonia fissò suo figlio, o meglio quello che in quel momento, per quanto potesse sembrare assurdo quel pensiero, sembrava suo figlio. Sei stato dentro di me, e non ti conosco affatto, pensò.
– ... caporale d'aviazione e corrispondente di guerra... – la voce di suo marito le arrivò all'improvviso, a pezzi, come uscendo da qualche anfratto silenzioso. Cercò di decodificare qualcosa. Adesso Ree era seduto sul letto, nell'unico angolo libero dalla montagna di cianfrusaglie che lo ricopriva. Yassoufi aveva in mano un vecchio album fotografico. – Ma il bisnonno morì in guerra? – domandò Reza. Suo padre si girò verso Antonia: – Chiedilo a tua madre – rispose. Lei annuì. – A Napoli, sì. Durante la ritirata tedesca, dopo che gli Alleati... – Reza si chinò in avanti: – Eccone un altro! – sbottò trionfante, esibendo un ragnetto sul palmo della mano. Antonia si accostò al marito, lo toccò sul gomito e quando lui si voltò a guardarla gli domandò seria: – Perchè hai detto Chiedilo a tua madre? – Lui non rispose, si limitò a fissarla tranquillamente. Lei insistette: – Perchè non glielo hai detto tu? E' una cosa che abbiamo raccontato a loro decine di volte... – Il marito fece una smorfia: – Che hai? Va tutto bene? – Respirò a fondo un paio di volte prima di rispondere: – Era il tono, Yassoufi. Era il tono della tua voce. Era... non so come definirlo... era maligno.
Perchè aveva usato proprio quell'aggetivo, maligno? L'uomo si staccò da lei arretrando di un passo, come a volerla mettere a fuoco meglio, e sorrise. Ma quello che gli si aprì sulla faccia non era precisamente un sorriso, notò Antonia. Era la quiete prima di un disastro imminente. Non sapeva esattamente perchè: certi pensieri le arrivavano così, senza un motivo apparente. Ma all'improvviso capì da dove l'aveva pescato. Non era un pensiero. Era un preciso e nitido ricordo.
Una decina d'anni prima c'era stato un certo interessamento per un suo manoscritto, Sulla via del ritorno. Esperienze di guerra 1941–1944, in cui aveva raccolto parte del materiale lasciatole dal nonno paterno, Gustavo Forrer. Antonia si dedicò con imprevista passione all'opera di trascrittura del diario, che il nonno aveva redatto in una grafia sicura ma così minuta – probabilmente per risparmiare sulla carta, che in quella situazione doveva essere merce piuttosto rara – da risultare di difficilissima comprensione. Le ci vollero parecchi mesi di lavoro: alla fine non solo riuscì a decifrare tutto il testo, ma si convinse che quel materiale avrebbe meritato senz'altro di essere pubblicato. Provò a contattare numerose case editrici italiane, senza esito. Alla fine, quando aveva ormai già quasi perso la speranza, un piccolo editore francese che aveva già pubblicato anni prima i due volumi di studi kantiani di Yassoufi, si disse disponibile a prendere in considerazione il materiale e propose ad Antonia un incontro con il direttore editoriale della collana di storia contemporanea (in realtà, fino a quel momento in catalogo risultavano esserci solo altri quattro libri) per discutere alcuni dettagli di lavoro sul testo. La casa editrice aveva sede in Normandia, poco distante dalla cittadina di Arromanches–les–Bains, nei luoghi dello sbarco alleato del '44 e ad Antonia, che da mesi si era calata con grande puntiglio nella parte della ricercatrice storica, parve una meravigliosa occasione per fare un'autentica esperienza sul campo, tanto più che – disse a Yassoufi quando gli comunicò la sua intenzione di accettare l'invito dell'editore – lei in Normandia non c'era mai stata, anzi per dirla tutta non era mai stata in Francia, e se il marito poteva sospendere per qualche giorno la sua attività si sarebbero concessi una breve vacanza, tanto i figli (che all'epoca avevano quattro anni) avrebbero potuto stare benissimo da suo padre. Yassoufi accettò con una certa riluttanza. Non aveva alcuna simpatia per il suocero, tanto meno per le vacanze in generale. La vacanza è l'occasione in cui si manifesta nell'uomo l'assoluta mancanza di pudore, era una delle sue frasi più frequenti. Inoltre era ancora pieno inverno: avrebbero sicuramente trovato un clima rigido e umido, cosa che rendeva piuttosto seccante fare turismo, protestò. Alla fine tuttavia accettò.
Arrivarono ad Arromanches–les–Bains un venerdì di fine febbraio. Le peggiori previsioni di Yassoufi furono confermate in pieno. Era impossibile distinguere il mare dalla cappa di grigio sovrastante. La linea dell'orizzonte era stata risucchiata nel timbro cupo di una giornata comune da quelle parti, specie d'inverno, come fu detto loro all'albergo.
Il colloquio alla casa editrice sarebbe stato nel pomeriggio. Avevano tutto il tempo di scoprire i dintorni. Imboccarono un sentiero di sabbia fra le dune livellate dal vento gelido. Mentre procedeva con passo svelto, Antonia lesse a voce alta dalla sua guida, tenendo il libretto davanti a sè: Le attrazioni della zona comprendono: Gold Beach, Cattedrale di Notre–Dame Bayeux e Musee de la Bataille Normande. Nelle vicinanze è inoltre presente: Museo degli arazzi di Bayeux. Yassoufi era dietro di qualche passo, lo sentiva sbuffare, anche se il vento tendeva ad avvoltolare le voci come i fogli di giornale che volavano alti alti, oltre gli steccati dei villini fronte–mare. Faceva un freddo cane, intorno non c'era anima viva. Perfino il mare sembrava muto, pensò Antonia. Infatti le onde si infrangevano sulla spiaggia in lontananza apparentemente senza alcun rumore, così quando girava il vento il fragore la coglieva di sorpresa, raddoppiando l'effetto. Di tanto in tanto una lama di sole fendeva lo strato di nubi e la spuma biancastra del mare riluceva all'improvviso, per brevi attimi. Altri rumori cascavano lì attorno, ma sempre per brevi attimi: una sirena, il batti e ribatti metallico di un cancelletto, un'auto che passava sulla strada alle loro spalle.
Il sentiero si inerpicava salendo su una specie di dosso. Fu solo quando arrivò in cima che Antonia finalmente li vide: enormi scatoloni di lamiera nera conficcati nella sabbia, i resti del porto artificiale costruito dagli Alleati in soli otto giorni per lo sbarco dei mezzi pesanti. La spiaggia in quel punto era molto larga, penetrava come una grande lingua fino a lambire le case del villaggio. Antonia si sedette sui cespi umidi in cima a quell'altura, incrociò le braccia sulle gambe piegate e si lasciò avvolgere dal tutto, affondando la faccia nel bavero della giacca a vento. Poi chiuse gli occhi. Pensò ai soldati, pensò al sangue rimestato dalle onde nel mare che ribolliva, pensò alle grida e agli scoppi, pensò alle conseguenze dei nostri errori e al cielo implacabile e lontano che imcomberà sempre su tutti i disastri dell'umanità.
Sotto di lei, il pendio precipitava bruscamente. Se avesse fatto resistenza alle formidabili folate di vento e si fosse sporta un po' di più, avrebbe visto il suo sguardo annegare in quel piccolo abisso. Quando Yassoufi la raggiunse, ansimando e piegandosi con le mani sulle ginocchia per riprendere fiato, ancora prima di girarsi verso di lui riconobbe il suo sguardo acuminato che la trafiggeva da qualche parte, fra la nuca e le spalle.
– E' una giornata schifosa. Questo vento è schifoso – disse infine, allungandole una mano fra i capelli. – E stare qui è pericoloso. Tu soffri di vertigini, meglio se non guardi di sotto.
Antonia non si mosse. Fare resistenza al vento, ripetè mentalmente. Le piaceva quella parola, resistenza. Era una pietra levigata e lucida conficcata nella sabbia, ignara delle voci, del vento, degli scoppi e del sangue. Ignara di tutto. Le venne da piangere. Forse non pianse davvero, forse gli occhi le si inumidirono a causa del forte vento, ma era sicura che avrebbe pianto a dirotto, se solo ne fosse stata capace. L'ultima volta che l'aveva fatto sarà stata una bimba.
– Ti ricordi di Markus?
– No.
– No certo che no, non l'hai conosciuto. Era un mio compagno di classe al liceo. C'era stato qualcosa fra noi, ma niente di più di qualche sguardo, credo.
– Infatti non lo conosco. Perchè me ne parli adesso?
– Me l'hai fatto tornare in mente tu, pochi istanti fa. Quando hai detto che soffro di vertigini e che potrei cadere di sotto...
– Non l'ho detto. Che puoi cadere di sotto, intendo. Ho detto solo di non guardare di sotto.
– Sì, scusa, il vento si mangia le parole.
Fiorivano sempre i lillà attorno alla casa dei Nielsen. Il signor Jakob, come era chiamato da tutti nel circondario il padre di Markus, veniva da Innsbruck e delle proprie origini austriache aveva conservato gelosamente uno spiccato senso del decoro. Quella che i Nielsen chiamavano villetta era in realtà una modesta casa a due piani, circondata su tre lati da un piccolo giardino, tra la ferrovia e il fiume. Il quartiere era popolato, soprattutto all'epoca, per lo più dalle famiglie degli operai di una vicina fabbrica. In quella zona, le case si assomigliavano tutte. Ma quanto a decoro, la villetta dei Nielsen le batteva tutte.
Antonia pensava che a volte Markus si prendesse un po’ troppo sul serio. In questo era molto simile al padre. A casa Nielsen i libri e l’amore per l’arte non erano mai mancati. Però Markus era attratto da altro: le armi, in primo luogo. E poi le donne certo, ma in subordine. I libri gli erano venuta a noia molto presto, come del resto suo padre.
Ogni tanto, nell'ultimo anno, finita la scuola Markus accompagnava Antonia nel ritorno verso casa. Una volta, in questi tragitti quasi sempre silenziosi, aveva rotto la sua personale consegna al mutismo dicendole che avrebbe voluto fare l'urbanista.
– E cosa fanno gli urbanisti? – aveva chiesto Antonia, stupita da tanta loquacità.
– Si occupano di città.
– E che fanno alle città?
Lui fece spallucce: – Tanto la maggior parte dei lavori non serve a niente.
– Oh, sembri convinto.
– Mmm. Da qualche parte stanno costruendo bombe che ce le sogniamo.
– Dici davvero?
– Mmm.
– Dove?
– Da qualche parte.
Il discorso era finito lì, e d'altra parte, pensò Antonia, che altro ci sarebbe stato da aggiungere? Quando Markus scomparve era la naturale conseguenza di una follia latente, giudicò impietosamente. Scomparve letteralmente nel nulla: una mattina non si presentò a lezione e non tornò più. All'inizio nessuno ci fece caso: le sue assenze da scuola erano frequenti. Poi, col passare delle settimane, apparve a tutti chiaro che non solo Markus non sarebbe mai più tornato, ma che forse aveva perfino fatto una brutta fine. Fare una brutta fine era, per la piccola e bigotta comunità di Trento, non solo l'esito di un destino sciagurato: era né più né meno un marchio infamante.
Alcuni mesi dopo Antonia ricevette una lettera. Una busta gialla, di un formato strano, non rettangolare classico, quasi quadrata (infatti dovette pagare una multa al postino all'atto di accettazione, per "formato non regolamentare"). Odorava di fumo di sigaretta. Dentro c'era un foglio: solo poche righe, scritte a mano con una grafia svolazzante, quasi una scrittura da vecchio se non fosse che la firma in calce era di un amico di Markus, compagno della stessa scuola ma di un'altra sezione. Antonia lo ricordava appena. Forse l'aveva visto in compagnia di Markus una o due volte. Ma non avrebbe mai pensato che fossero così amici.
La sostanza della lettera era molto semplice: senza tanti preamboli, costui rivelava ad Antonia che Markus era morto e che lei – lei, Antonia! – avrebbe dovuto ritenersi responsabile della sua morte. Sbigottita, lesse tre o quattro volte le poche righe che formavano dunque il suo atto d'accusa. A quanto pare, Markus si era innamorato perdutamente di lei. Sentendosi in qualche modo rifiutato (ma come? ma quando? Antonia non riusciva a comprendere: in nessun modo, mai, le era sembrato che provasse qualche sentimento per lei) era fuggito davvero, in un qualche luogo sperduto dell'Africa subsahariana. A quanto pare si era fatto ingaggiare come mercenario in una delle tante guerre che si combattono da quelle parti. A quanto pare, nel corso dell'assedio a un villaggio, si era gettato contro un miliziano della parte avversa in un temerario quanto improbabile corpo a corpo, rimanendo gravemente ferito. A quanto pare era rimasto agonizzante per molte ore, nella polvere, per strada, abbandonato, mentre intorno infuriava una sanguinosa battaglia. A quanto pare, l'amico che scriveva quella lettera era stato informato su questi dettagli dall'ambasciata italiana, che si era prodigata per ricostruire la vicenda eccetera. A quanto pare, infine, tutto questo era stata la conseguenza dello sconfinato amore che Markus provava per lei, Antonia. La lettera chiudeva con una frase secca come una sentenza, talmente sorprendente che Antonia dovette rileggerla più volte: Markus Nielsen, diciottenne. Innamorato non ricambiato: dunque privilegiato e defraudato.
Non pensò nemmeno per un istante che la lettera potesse essere uno scherzo macabro o frutto della fantasia di un deficiente intenzionato solo a gettarle addosso il fango di una calunnia. Istintivamente, sentì che doveva essere così. Il povero Markus si era innamorato di lei. Lei non aveva fatto nulla per incoraggiare il suo amore. Anzi forse, senza volerlo, era andata oltre e aveva manifestato, chissà, insofferenza o fastidio per certi suoi atteggiamenti. Sentendosi rifiutato, Markus aveva deciso di sparire dalla circolazione, cacciandosi apposta in un dannato casino: il classico gesto assoluto e disperato di chi sente di non avere più nulla da perdere, avendo già perso ciò che gli importava di più. Conoscendo Markus, tutto questo era perfettamente – e tragicamente – verosimile.
Quella sera stessa, Antonia andò alla biblioteca comunale, subito prima dell'ora di chiusura. Salì al terzo piano, percorse con passo rapido e leggero le due grandi sale della Filosofia e della Sociologia senza quasi far scricchiolare il vecchio impiantito d'assi del pavimento, si fermò nel corridoio che portava agli uffici della Direzione, spalancò l'enorme antica finestra in stile neoclassico e fece per buttarsi di sotto. La mano del custode del terzo piano, che la afferrò quando era già in piedi sul largo davanzale di pietra, le strinse così saldamente una coscia, appena sotto l'inguine, da lasciarle per sempre un segno rossoscuro indelebile a forma di piccolo ragno.
Raccontò tutto questo a Yassoufi, su quella spiaggia di Arromanches–les–Bains battuta dal vento, mentre la scortava nel ritorno verso l'albergo tenendole un braccio sulle spalle. Quando ebbe terminato, lui si fermò, la fissò per un istante e poi disse, sollevando lo sguardo in un punto sopra e dietro di lei, distante:
– Non capisco, come hai fatto a sentirti in colpa? Tu non eri responsabile di niente.
– Io mi sento in colpa. Non ho mai smesso di sentirmi in colpa.
– Ma perchè?
– Per versare il saldo dell'intera somma, dobbiamo versare il nostro patrimonio. Serve il saldo dell'intera somma.
– Non parlare per enigmi.
– Sei tu che non capisci. Io l'ho ucciso. Quel tizio aveva ragione.
– Non me ne hai mai parlato prima.
– Ma era una cosa appena fuori dall'inquadratura. Me l'hai fatta ritrovare tu adesso.
– Non ci credo, ti sei inventata tutto. Non è così? Stai facendo la melodrammatica. Ti viene bene ultimamente.
Antonia si portò le mani alla faccia. C'era davvero odore di sangue lì intorno o se lo metteva in testa? Poi con gesti rapidi arrotolò l'orlo della giaccavento, si voltò a tre quarti e abbassò i pantaloni solo da un lato, fino a mezza coscia. Il ragno rosso spiccava ancora sulla carne pallida, appena sotto la piega di una natica.
– Non lo hai mai visto Yassoufi? Guardalo. Guardalo. Non mi conosci così bene. Dove guardi quando mi guardi?
Yassoufi indietreggiò spaventato di alcuni passi e fu lì che, rifuggendo con lo sguardo da lei e da quel piccolo marchio che sembrava impresso a fuoco sulla pelle, voltandosi verso il mare tumultuoso, ma alzando apposta la voce per non farla disperdere dal vento, fu lì che disse, sopra tutti i rumori, sopra tutti i batti e ribatti metallici, sopra le urla e le grida e gli scoppi che ancora risuonavano intorno, sulla famosa spiaggia del famoso sbarco, fu lì che Yassoufi disse con un tono di voce che percosse Antonia come uno schiaffo e che le bruciò poi a lungo come una ferita aperta:
– TU NON PUOI GETTARMI ADDOSSO TUTTO QUESTO!
Quanto tempo era passato? Una decina d'anni, più o meno, ma il tono maligno con cui lui aveva pronunciato quelle parole, in un grido strozzato, acuto, stridulo, non lo aveva mai dimenticato.
– Era il tono, Yassoufi. Era il tono della tua voce. – ripetè con calma mentre Ree continuava a trovare ragnetti sul pavimento. Girò lo sguardo fuori dalla porta finestra: si disse che quella primavera avrebbe dovuto far rifare i legni dei balconi. Il sole e le intemperie li avevano scoloriti. Il legno, quando scolorisce, diventa grigio.
Quando tornarono di sotto, Fatima stava ricaricando la sua penna stilografica con una nuova cartuccia di colore blu. Aveva le dita macchiate di blu. Un piccolo sbaffo blu sulla guancia. Antonia la guardò con sincera gratitudine.
– Come si fa a leggere libri su Dio? – domandò Fatima.
– Quale Dio?
– Il nostro, il vostro. Quello di papà. Che importa quale? Che razza di domanda è, mamma?
– Chiedilo a tuo padre, lui ha sicuramente una bibliografia molto precisa da consigliarti. – Non c'era traccia di ironia nella sua voce, almeno non le sembrava. In ogni caso, Fatima scoppiò a ridere.
– Una bibliografia molto precisa, sì. E' tipico di papà.
– Perchè ti interessa l'argomento?
La ragazza si rifece seria: – Arriva un momento nella vita che si fa un bilancio del pieno e del vuoto. Ho bisogno di sapere di più su tutto questo.
Antonia si trattenne dal ridere. Parlava sul serio, a quanto pare. Notò che nello sguardo sua figlia aveva la stessa sfida con cui lei da ragazza affrontava la vita, ma senza la sua condiscendenza, priva di quella sfumatura divertita che, Antonia ne era sicura, era scomparsa da un bel pezzo anche dai suoi occhi.
– E' questo quello di cui ci occupiamo, in fin dei conti, no? Fondamentalmente. Dio ci attende sempre al varco. E' la sua vendetta tardiva, credo.
Antonia ebbe l'impressione che tutta quella faccenda fosse un po' più complicata di quanto sua figlia non volesse darle a intendere. Un giorno Fatima – avrà avuto sei o sette anni ed era tarda primavera e loro due erano in quella stessa cucina a progettare le imminenti vacanze al mare – la guardò sinceramente entusiasta e sgranando gli occhioni scuri le disse: – Sai perché adoooooro andare al mare? Perchè per tutto il tempo che sto in macchina posso coccolare le mie bambole – e siccome sua madre stava lì senza dire nulla, aggiunse: – Capisci mamma? Avrò finalmente tutto il tempo che voglio per dedicarmi a loro!
Ad Antonia era parsa un'argomentazione bizzarra: sua figlia passava ore ed ore, tutti i sacrosanti giorni, con le sue bambole. In realtà durante quei viaggi Fatima non vedeva l'ora di arrivare in albergo e di correre sulla spiaggia a giocare con la sabbia, a tuffarsi in acqua, a giocare con gli altri bimbi (non con Reza, da cui la separava una distanza siderale fatta di silenzi e di incomprensioni e di limpide vastità incolmabili). Dirottare l'attenzione sul viaggio in macchina e su quanto piacevole cercava di farselo sembrare, ogni anno, in realtà era un diversivo, una finta strategica per non corrompere con il suo stesso entusiasmo il suo piccolo sogno gioioso. Così doveva essere anche adesso, stabilì Antonia. Questa strana faccenda di Dio eccetera. Fatima percorreva strade oblique, pensò Antonia. Ma non era stato così anche per lei, un tempo? Si sentì interrogata dal suo sguardo. Provò a cercare qualcosa di sensato da dirle, ma rimase zitta. Cosa c'entrava Markus, il povero Markus privilegiato e defraudato, con il cielo velato di quella mattina, con la pioggia di ragnetti e con la calma sempre eccessiva di Yassoufi–che–non–era–più–lo–stesso dai tempi del ricevimento all'ambasciata? Doveva ricominciare a pensare anche lei in modo obliquo. Doveva sforzarsi di farlo.
Forse era questa la vendetta tardiva, avrebbe detto Fatima, del suo personale destino.
Poi afferrò una delle due buste che erano arrivate quella mattina e che giacevano ancora sul tavolo. Era la busta gialla e grande. Sopra c'era un timbro blu dell'Azienda sanitaria provinciale. La tenne fra due mani, appoggiata contro il grembo. Aspettò che Fatima uscisse dalla cucina per andare a lavarsi le mani. Aspettò che un tiepido raggio di sole transitasse fino a lei. Aspettò che il marito facesse la sua comparsa nella cornice della porta.
– Ho un tumore. – disse. La busta gialla scivolò a terra.
Perchè si dice avere delle responsabilità? Lei non sentiva di averne. Non più.
Aspettò che Yassoufi si sedette pesantemente su una sedia. Ebbe l'impressione che, assieme a lui, tutta la casa si sedesse, si ripiegasse su se stessa con un rumore sordo. Aggiunse solo, con il tono non di chi apre, ma di chi chiude, definitivamente, il discorso:
– Un tumore maligno.
Ecco cosa sappiamo, pensò Antonia fermandosi in mezzo alla classe, che tutto è collegato.
Infine bussarono alla porta: una testa pelata e rubizza fece capolino. Tutti guardarono nella sua direzione. Il bidello esitò un attimo prima di entrare, poi raggiunse la cattedra e depositò un fascicolo di fogli legati da un grosso elastico. Nel tornare verso la porta si mise a camminare esageratamente in punta di piedi, come nelle comiche. La classe scoppiò in una risata. Ad Antonia non dispiacque l'intermezzo e ringraziò con lo sguardo, in silenzio, quell'apparizione. Poi si accostò alla finestra e guardò di sotto. La scuola dava su una piazzetta del centro storico. Dalla parte opposta, ai piedi di un vetusto palazzo dell'Ottocento annerito dallo smog e dalla polvere, c'era un piccolo negozio di orologeria. Il cielo si era rannuvolato e aveva cominciato a piovere. Un tizio uscì dal negozio e anzichè aprire l'ombrello lo tenne dritto avanti a sè, come se impugnasse una spada, e fece l'atto di duellare con un passante. Poi trotterellò fino al vicolo nell'angolo, esattamente come se stesse cavalcando un destriero, finchè scomparve dal campo ottico di Antonia, che ringraziò per l'ultima volta il cielo. Capita di vedere cose strane in una piazzetta grigia in una mattina piovosa, pensò.
ilraccontodelmesedimarzo13
Molti modi sbagliati di camminare
Walter Brenner sul palco si muoveva ancora come un felino. Accompagnava le battute con una torsione del collo e delle spalle in una specie di swing, come un giocatore di golf. Poteva anche sembrare solo un esercizio di stile senza sostanza - perfino fuori moda, da showman d'altri tempi - però funzionava.
Infilava una dopo l'altra tutte le sue gag più famose. Non c'era un ordine preciso o almeno non sembrava esserci.
- Conosco un tizio, che crede di essere comico... - esordiva così, esattamente come un tempo.
- ... una volta mi ha chiesto di scrivergli una battuta, mi ha telefonato nel cuore della notte per domandarmelo. Ci ho pensato su un po', gliel'ho scritta. Poi ho chiesto a sua moglie se gliela portava lei. Dopo essere scesa dal mio letto.
Col tempo era diventata una battuta di quart'ordine, ma la gente rideva e applaudiva. Gli bastava vederlo, probabilmente. Lui li ripagava come sapeva fare da una vita: un sorriso a tutta bocca, la faccia di sghimbescio, l'amiccamento furbo, e la platea esplodeva. BREN-NER! BREN-NER! BREN-NER!
A osservare la platea c'era da giurarci che ben pochi fossero entrati con il biglietto. Sembrava che stavolta avessero esagerato, con gli inviti. C'era in alto, verso gli ultimi posti, un piccolo drappello di ragazzi con le facce smarrite, tutti con indosso una maglietta rossa che reclamizzava un'associazione di volontariato locale. Quel grumo rosso spiccava nel parterre delle giacche grigie e nere, animate da teste ciondolanti, pericolosamente inclini alle risate fuori tempo, sempre troppo sguaiate per essere autentiche. C'erano gli attori e i registi delle filodrammatiche locali, che ricordavano le battute più famose e le commentavano fra loro nell'orecchio. C'erano funzionari, politici, affaristi, impiegati dallo sguardo più indefinito, tutti con le mani in grembo, i colletti ben stirati. C'erano gli uomini delle istituzioni, i presidenti e i rappresentanti delle categorie sorretti a braccio da donne appariscenti, molti dei quali erano stati compagni di studi dell'uomo che si agitava sotto i riflettori e che di tanto in tanto li prendeva ancora per il culo, senza peraltro destare in loro alcun sospetto, come sempre.
Walt reggeva ancora abbastanza bene, tutto da solo, quasi due ore di spettacolo. Solo di tanto in tanto, quella sera, la sua faccia si era bloccata per qualche istante in un'espressione improvvisamente seria, cupa, quasi ostile. In quegli attimi ad Antonia - rintanata a guardarlo in decima fila - era sembrato che del vecchio amico di un tempo non fosse rimasto altro sul palco che un'ombra sbiadita, appesantita dagli anni, impaurita.
Forse erano solo brevi e studiate pause tecniche per darsi il tempo di rifiatare. Quasi certamente passarono inosservate a tutti gli altri. Ma Antonia aveva imparato a riconoscere quei momenti, negli anni in cui lei e Walt erano ancora legati dal bisogno di una reciproca complicità. Anche allora capitava che lui si fermasse di colpo, estraneo a tutto quello che aveva intorno, e lei vedeva bene che il suo sguardo era percorso da un'ombra improvvisa, come quella proiettata dalle piccole nubi veloci che solcavano il cielo d'estate, nel piazzale dell'università. Erano i suoi momenti corvini, così Antonia li aveva chiamati all'epoca perchè avevano grandi ali scure e nel loro transito veloce sopra il loro cielo si facevano vedere solo da chi aveva occhi per vederli - o magari qualche zona d'ombra nell'anima.
Quella sera, Antonia ne contò almeno tre, di momenti corvini. L'ultimo sembrò quasi introdurre quello che indubbiamente era il clou di tutto lo spettacolo: uno sketch pazzesco, lunghissimo, nel quale Walter Brenner non pronunciava nemmeno una parola, ma semplicemente rincorreva per tutto il palco la sua ombra. Era un suo vecchio cavallo di battaglia, ispirato ai grandi del cinema muto, forse soprattutto a Harry Langdon, al comico con la faccia da bambino, ingenuo e trasognato. Antonia gliel'aveva visto fare decine di volte, in teatro e in televisione, e tutti in sala avevano mostrato di ricordarlo bene accogliendolo con un applauso scrosciante, senza però immaginare a cosa avrebbero assistito quella sera. Solitamente infatti quello sketch, almeno nelle versioni classiche, durava pochi minuti. Quella sera invece Walt lo tirò lungo per quasi mezz'ora. Nessuno poteva aspettarselo, anche se ai tempi d'oro uno come Walter Brenner era capace di tutto pur di stupire il pubblico (o di stupire se stesso, pensò Antonia). E infatti, passati i primi dieci minuti, qualcuno timidamente accennò a un applauso, forse immaginando di dare origine a una specie di segnale in codice: ok Walter, geniale. Adesso vediamo il resto. Invece quello teneva duro, sbuffando e ansimando dietro alla sua ombra birichina, alternando cadute, scivoloni, brevi pause, faccette buffe o costernate, mulinando nell'aria quelle braccia lunghissime, artefatte in un corpo visibilmente ancora prestante, anche se ormai un po' la brutta copia di quello splendido che gli valse un tempo le ammirazioni e gli amori di molte donne, tutte insopportabilmente bellissime! lo accusò un giorno Antonia - un giorno lontano, sideralmente lontano ormai. Per tutto il tempo, per una durata che nessuno in sala poteva prevedere (cosa che sembrava avesse sparso sugli spettatori una sorta di ammirazione e nello stesso tempo di angoscia) tutti rimasero con il fiato sospeso, un po' come quando si assiste alle evoluzioni scriteriate di un funambolo sulla corda.
Alla fine, nessuno ebbe il coraggio di iniziare per primo l'applauso. Li aveva raggelati. Non c'era più un comico sul palco, non c'era più il divertimento, non c'era più alcuna risata in gola. C'era un vecchio uomo buffo che aveva cercato di trattenere, ma invano, una piccola ombra testarda e imprendibile; forse l'ombra di qualcun altro, di un altro da sè, di tutti gli altri seduti in sala, inchiodati nelle poltrone di velluto blu; o forse semplicemente, pensò Antonia, l'ombra della sua vita, sia pure di una vita splendente e particolare come quella di Walter Brenner. Era come quando si osserva qualcuno che cammina con un'andatura assurda, pensò. Se lo incrociamo per strada, gli giriamo intorno tenendoci a distanza. Vorremmo che si allontanasse da noi in fretta eppure non riusciamo a staccargli gli occhi di dosso. Bè, se c'erano davvero molti modi sbagliati di camminare, Walt li adoperava tutti, questo è certo.
Il resto dello spettacolo lo macinò più con il mestiere che con il genio. Un paio di volte era perfino inciampato abbastanza goffamente: ma aveva dissimulato molto bene, imitando i pagliacci che fingono di cadere, tanto da strappare altre risate. La scuola dei comici di una volta, pensò Antonia mentre usciva dal teatro armeggiando con la sciarpa perché tirava un vento gelido. Nell'aria c'era odore di neve imminente. Da quanto non rivedeva Walt? Era invecchiato molto: ma sicuramente anche lei lo era, pensò con una smorfia. Quanto passato dobbiamo avere dietro le spalle perchè ci sia ancora un futuro? Se lo domandò con molta serietà, infilandosi nel taxi. Walter Brenner conosceva i trucchi del mestiere: ma arriva un momento in cui siamo dei corpi estranei. Forse aveva ragione quel critico, pensò Antonia, che sul Corriere della Sera di quasi vent'anni fa, dando notizia dello scioglimento del famoso duo Brenner & Verdini, scrisse: "Senza la sua spalla storica, il mitico esile filiforme geniale Enzo Verdini, la carriera di Walter Brenner appare oggi destinata all'inevitabile declino".
In qualche modo, Antonia si convinse di avere appena visto in faccia - sia pure a distanza, nascosta dalla benigna oscurità della platea di un piccolo teatro di provincia - un uomo già ben avviato sulla strada del declino. Un corpo estraneo, forse perfino una specie di fantasma.
Con il naso schiacciato sul vetro umido del finestrino del taxi, le venne in mente il fatale destino di un altro grande dello spettacolo, di cui oggi nessuno ricorda neppure il nome, Marceline. Era un comico di origine spagnola che furoreggiava a Londra agli inizi del secolo, talmente bravo da suscitare l'ammirazione di un giovanissimo Charlie Chaplin. Di Marceline non è rimasto più nulla, tranne un unico brevissimo frammento cinematografico che Antonia potè vedere qualche anno prima, in una serata-evento di un festival dedicato al cinema muto. Un frammento di appena sei secondi: un soffio, un niente, una scheggia di luce biancastra e opaca come una nebbia. Ma eccolo, finalmente. Marceline aveva un volto. Il mito scendeva di nuovo fra gli umani. Quella nebbia aveva di nuovo dei contorni, una faccia, un corpo. Un fantasma trasportato lungo tutto un secolo, dal 1907 ad oggi. Agli occhi sgomenti di Antonia, aggrappata alla poltrona del cinema, totalmente rapita da quello che stava vedendo, fu davvero come se il grande attore ricomparisse dietro i fumi dell'Ade per portare chissà quale messaggio ai viventi. Sei secondi imprigionati in un rullo di carta della Library of Congress di Londra, trasferiti mezzo secolo fa su pellicola 16 millimetri e più recentemente su 35 millimetri. All'epoca in cui il frammento fu girato, Merceline era l'attrazione principale dell'Hippodrome. Da ragazzo era stato anche apprendista da un sarto, poi si unì alla carovana di un circo e con quello approdò a Londra sul finire dell'Ottocento. Fu lui a inaugurare il nuovo Hippodrome, nel gennaio del 1900: faceva il clown nella parte di Marceline the Droll. - Londra impazziva per lui - riconobbe Chaplin nelle sue memorie. Qualche anno più tardi si trasferì a New York, dove per dodici stagioni di fila raccolse un successo straordinario. Poi, all'improvviso, qualcosa si ruppe. Forse il genio lo abbandonò, forse con l'età si era un po' arrugginito o semplicemente andò così perchè è così che va, perchè l'altalena del successo come sale vertiginosamente altrettanto rapidamente poi è destinata a precipitare di sotto. Marceline venne messo da parte, un po' alla volta il suo pubblico lo dimenticò. Quando Chaplin lo incontrò nuovamente, anni dopo, il vecchio maestro, il grandissimo e ineguagliabile Marceline era uno dei tanti pagliacci che si esibivano nel circo a tre piste dei Ringling Brothers. Era un uomo ormai distrutto. Finì come doveva finire: nel '27 Marceline si suicidò in uno squallido alberghetto per artisti.
Antonia si staccò dal finestrino, più o meno come se avesse appena visto il fantasma di Marceline nel buio della notte, mentre il taxi risaliva la costa della collina ad est della città, nella campagna allagata di ombre scure e di piccole luci dietro le finestre delle case basse. Si vergognò di se stessa: mica voleva augurare al vecchio Walt, tutto sommato - e calcò bene tra sè quelle parole, tutto sommato - la medesima triste e ingloriosa fine. Anche se ovviamente il paragone con Marceline lo avrebbe inorgoglito oltre misura. Era stato proprio lui anni fa a farle scoprire per primo il comico spagnolo. E indubbiamente la sua ispirazione era molto chapliniana - o forse sarebbe meglio dire marceliniana, come testimoniava l'incredibile sketch della caccia all'ombra.
Adesso si starà godendo l'ultimo applauso, calcolò Antonia, frugandosi nelle tasche alla ricerca delle chiavi di casa e dei soldi per il tassista. Si era alzata apposta poco prima della fine dello show, per non sentirsi costretta a raggiungerlo dietro le quinte. Si era ripromessa di fare così fin da quando aveva letto su un giornale locale che la sua tournèe (che segnava il ritorno di Walter Brenner in teatro dopo quasi un decennio di lontananza dalla scena, nel quale si era dedicato solo a qualche comparsata in film non memorabili e a una nota pubblicità televisiva) avrebbe fatto tappa in città per tre serate. In teoria per Walter, aveva pensato Antonia, dovrebbe essere un po' come tornare a casa, quarant'anni dopo gli anni dell'università. Una specie di rimpatriata. Per quel che ne sapeva lei, non era mai più tornato da quelle parti dopo aver lasciato la facoltà di Sociologia, a pochi esami dalla laurea, per cominciare a Milano la sua carriera di attore. Avrebbe dovuto fargli piacere riannodare i fili di una parte della sua vita - una parte non secondaria, pensò Antonia: ma subito dopo considerò che quello era per l'appunto solo un suo pensiero, e lei non era lui. Conosceva troppo bene quel figlio di puttana per pensare che non l'avrebbe presa esattamente in quel modo. E in tutta onestà non era nemmeno molto sicura di volerlo andare a vedere per davvero. In ogni caso giurò a se stessa che non gli avrebbe mandato il solito mazzo di fiori in camerino nè avrebbe fatto la fila dietro le quinte, confusa nella piccola folla dei fan a caccia di un autografo, non meno esagitati di un tempo, di quando Brenner & Verdini riempivano i grandi teatri ed erano protagonisti di quella fortunatissima trasmissione televisiva, come si chiamava, Ti manda Bibì. Bibì era il soprannome che Walter usava spesso nei suoi spettacoli verso la fine degli anni Settanta, quando la sua carriera raggiuse l'apice della popolarità: quello che però nessuno sapeva era che quel nomignolo gliel'aveva affibbiato proprio lei, Antonia, quando erano ancora due ventenni smagati e ribelli, diffidenti di eroi e di miti, di grandezze e di fama.
No, si disse, cadergli di nuovo fra le braccia sarebbe stata una vera stronzata. Ah, eccolo qui il famoso comico che una volta mi faceva spanciare dalle risate. Ah, ecco qui la vecchia Antonia, come non dissimula neanche tanto bene. Per fortuna non l'aveva fatto, per fortuna non era più così cretina, concluse Antonia.
Quando arrivò a casa era quasi mezzanotte. Lui era ancora sveglio, sentiva i suoi passi sul pavimento della piccola mansarda.
- Sono stata a vedere Ovviamente non era bianco - disse, sforzandosi di parlare a voce alta. Fissò il soffitto, come se potesse vedere il marito attraverso il solaio. Silenzio. Gridò:
- SAI, L'ULTIMO SPETTACOLO DI WALT.
Perchè aveva detto "l'ultimo"? I cespugli sfoltiti, le cesoie del destino, l'orologio biologico che rallenta?
- TI RICORDI DI WALT, TESORO? WALT-ER BREN-NER...
Depositò gli orecchini in un portagioie di metallo che stava su un mobile del salotto, tolse le scarpe sfilandole con la punta dei piedi e le fece volare da qualche parte. Saltellando levò anche il vestito. Quando entrò nel bagnetto di servizio era quasi tutta nuda. Alzò ancora gli occhi al soffitto.
- Perchè eri seccato con me ieri sera?
Solo allora, abbassando lo sguardo all'ampio specchio sopra il lavandino, vide la sua faccia e quasi cacciò un urlo. Il rossetto era tutto sbavato e aveva formato una vistosa chiazza rossoscura attorno alla bocca, che sembrava così assurdamente spianata, come quella di un clown.
- Sai che l'altro giorno quassù è entrato un geko?
Antonia trattenne un improvviso desiderio di mettersi a piangere. Quando sarà successo? Quando era ancora a teatro? Contò fino a dieci, trattenendo il respiro. Forse adesso, si disse per calmarsi. Forse quando mi sono levata il vestito, di là, dopo essere entrata. Doveva essere andata così, certo.
Si sforzò di rispondere:
- Non credo che ce ne siano da queste parti.
- Quello che vuoi. Io l'ho visto. Era un geko. Stava immobile sul soffitto. Come fanno? Hanno delle specie di ventose sotto le zampe? O si aggrappano con le unghie all'intonaco?
Era la stanza che girava tutta vorticosamente o lei che... Antonia si aggrappò al lavandino. I flaconcini di solvente e di smalto da unghie che stavano allineati contro lo specchio traballarono e tintinnarono. Un paio caddero dentro il lavandino, frantumandosi e andando a formare una macchia violacea, che si allargò rapidamente. Adesso quel figlio di puttana si starà godendo l'ultimo applauso, pensò. Non era sicura che proprio quel pensiero le attraversasse la mente adesso, ma d'altra parte, si disse per calmarsi, aveva importanza? Aveva una qualche cazzo di importanza?
- Sono stata a vedere Ovviamente non era bianco. L'ultimo spettacolo di Walt. TI RICORDI DI WALT, TESORO?
- No. E comunque, non ero affatto seccato con te ieri sera.
- TI RICORDI DI WALT, TESORO?
- ...
- TI RICORDI DI WALT, TESORO?
ilraccontodelmesedifebbraio13
Infilava una dopo l'altra tutte le sue gag più famose. Non c'era un ordine preciso o almeno non sembrava esserci.
- Conosco un tizio, che crede di essere comico... - esordiva così, esattamente come un tempo.
- ... una volta mi ha chiesto di scrivergli una battuta, mi ha telefonato nel cuore della notte per domandarmelo. Ci ho pensato su un po', gliel'ho scritta. Poi ho chiesto a sua moglie se gliela portava lei. Dopo essere scesa dal mio letto.
Col tempo era diventata una battuta di quart'ordine, ma la gente rideva e applaudiva. Gli bastava vederlo, probabilmente. Lui li ripagava come sapeva fare da una vita: un sorriso a tutta bocca, la faccia di sghimbescio, l'amiccamento furbo, e la platea esplodeva. BREN-NER! BREN-NER! BREN-NER!
A osservare la platea c'era da giurarci che ben pochi fossero entrati con il biglietto. Sembrava che stavolta avessero esagerato, con gli inviti. C'era in alto, verso gli ultimi posti, un piccolo drappello di ragazzi con le facce smarrite, tutti con indosso una maglietta rossa che reclamizzava un'associazione di volontariato locale. Quel grumo rosso spiccava nel parterre delle giacche grigie e nere, animate da teste ciondolanti, pericolosamente inclini alle risate fuori tempo, sempre troppo sguaiate per essere autentiche. C'erano gli attori e i registi delle filodrammatiche locali, che ricordavano le battute più famose e le commentavano fra loro nell'orecchio. C'erano funzionari, politici, affaristi, impiegati dallo sguardo più indefinito, tutti con le mani in grembo, i colletti ben stirati. C'erano gli uomini delle istituzioni, i presidenti e i rappresentanti delle categorie sorretti a braccio da donne appariscenti, molti dei quali erano stati compagni di studi dell'uomo che si agitava sotto i riflettori e che di tanto in tanto li prendeva ancora per il culo, senza peraltro destare in loro alcun sospetto, come sempre.
Walt reggeva ancora abbastanza bene, tutto da solo, quasi due ore di spettacolo. Solo di tanto in tanto, quella sera, la sua faccia si era bloccata per qualche istante in un'espressione improvvisamente seria, cupa, quasi ostile. In quegli attimi ad Antonia - rintanata a guardarlo in decima fila - era sembrato che del vecchio amico di un tempo non fosse rimasto altro sul palco che un'ombra sbiadita, appesantita dagli anni, impaurita.
Forse erano solo brevi e studiate pause tecniche per darsi il tempo di rifiatare. Quasi certamente passarono inosservate a tutti gli altri. Ma Antonia aveva imparato a riconoscere quei momenti, negli anni in cui lei e Walt erano ancora legati dal bisogno di una reciproca complicità. Anche allora capitava che lui si fermasse di colpo, estraneo a tutto quello che aveva intorno, e lei vedeva bene che il suo sguardo era percorso da un'ombra improvvisa, come quella proiettata dalle piccole nubi veloci che solcavano il cielo d'estate, nel piazzale dell'università. Erano i suoi momenti corvini, così Antonia li aveva chiamati all'epoca perchè avevano grandi ali scure e nel loro transito veloce sopra il loro cielo si facevano vedere solo da chi aveva occhi per vederli - o magari qualche zona d'ombra nell'anima.
Quella sera, Antonia ne contò almeno tre, di momenti corvini. L'ultimo sembrò quasi introdurre quello che indubbiamente era il clou di tutto lo spettacolo: uno sketch pazzesco, lunghissimo, nel quale Walter Brenner non pronunciava nemmeno una parola, ma semplicemente rincorreva per tutto il palco la sua ombra. Era un suo vecchio cavallo di battaglia, ispirato ai grandi del cinema muto, forse soprattutto a Harry Langdon, al comico con la faccia da bambino, ingenuo e trasognato. Antonia gliel'aveva visto fare decine di volte, in teatro e in televisione, e tutti in sala avevano mostrato di ricordarlo bene accogliendolo con un applauso scrosciante, senza però immaginare a cosa avrebbero assistito quella sera. Solitamente infatti quello sketch, almeno nelle versioni classiche, durava pochi minuti. Quella sera invece Walt lo tirò lungo per quasi mezz'ora. Nessuno poteva aspettarselo, anche se ai tempi d'oro uno come Walter Brenner era capace di tutto pur di stupire il pubblico (o di stupire se stesso, pensò Antonia). E infatti, passati i primi dieci minuti, qualcuno timidamente accennò a un applauso, forse immaginando di dare origine a una specie di segnale in codice: ok Walter, geniale. Adesso vediamo il resto. Invece quello teneva duro, sbuffando e ansimando dietro alla sua ombra birichina, alternando cadute, scivoloni, brevi pause, faccette buffe o costernate, mulinando nell'aria quelle braccia lunghissime, artefatte in un corpo visibilmente ancora prestante, anche se ormai un po' la brutta copia di quello splendido che gli valse un tempo le ammirazioni e gli amori di molte donne, tutte insopportabilmente bellissime! lo accusò un giorno Antonia - un giorno lontano, sideralmente lontano ormai. Per tutto il tempo, per una durata che nessuno in sala poteva prevedere (cosa che sembrava avesse sparso sugli spettatori una sorta di ammirazione e nello stesso tempo di angoscia) tutti rimasero con il fiato sospeso, un po' come quando si assiste alle evoluzioni scriteriate di un funambolo sulla corda.
Alla fine, nessuno ebbe il coraggio di iniziare per primo l'applauso. Li aveva raggelati. Non c'era più un comico sul palco, non c'era più il divertimento, non c'era più alcuna risata in gola. C'era un vecchio uomo buffo che aveva cercato di trattenere, ma invano, una piccola ombra testarda e imprendibile; forse l'ombra di qualcun altro, di un altro da sè, di tutti gli altri seduti in sala, inchiodati nelle poltrone di velluto blu; o forse semplicemente, pensò Antonia, l'ombra della sua vita, sia pure di una vita splendente e particolare come quella di Walter Brenner. Era come quando si osserva qualcuno che cammina con un'andatura assurda, pensò. Se lo incrociamo per strada, gli giriamo intorno tenendoci a distanza. Vorremmo che si allontanasse da noi in fretta eppure non riusciamo a staccargli gli occhi di dosso. Bè, se c'erano davvero molti modi sbagliati di camminare, Walt li adoperava tutti, questo è certo.
Il resto dello spettacolo lo macinò più con il mestiere che con il genio. Un paio di volte era perfino inciampato abbastanza goffamente: ma aveva dissimulato molto bene, imitando i pagliacci che fingono di cadere, tanto da strappare altre risate. La scuola dei comici di una volta, pensò Antonia mentre usciva dal teatro armeggiando con la sciarpa perché tirava un vento gelido. Nell'aria c'era odore di neve imminente. Da quanto non rivedeva Walt? Era invecchiato molto: ma sicuramente anche lei lo era, pensò con una smorfia. Quanto passato dobbiamo avere dietro le spalle perchè ci sia ancora un futuro? Se lo domandò con molta serietà, infilandosi nel taxi. Walter Brenner conosceva i trucchi del mestiere: ma arriva un momento in cui siamo dei corpi estranei. Forse aveva ragione quel critico, pensò Antonia, che sul Corriere della Sera di quasi vent'anni fa, dando notizia dello scioglimento del famoso duo Brenner & Verdini, scrisse: "Senza la sua spalla storica, il mitico esile filiforme geniale Enzo Verdini, la carriera di Walter Brenner appare oggi destinata all'inevitabile declino".
In qualche modo, Antonia si convinse di avere appena visto in faccia - sia pure a distanza, nascosta dalla benigna oscurità della platea di un piccolo teatro di provincia - un uomo già ben avviato sulla strada del declino. Un corpo estraneo, forse perfino una specie di fantasma.
Con il naso schiacciato sul vetro umido del finestrino del taxi, le venne in mente il fatale destino di un altro grande dello spettacolo, di cui oggi nessuno ricorda neppure il nome, Marceline. Era un comico di origine spagnola che furoreggiava a Londra agli inizi del secolo, talmente bravo da suscitare l'ammirazione di un giovanissimo Charlie Chaplin. Di Marceline non è rimasto più nulla, tranne un unico brevissimo frammento cinematografico che Antonia potè vedere qualche anno prima, in una serata-evento di un festival dedicato al cinema muto. Un frammento di appena sei secondi: un soffio, un niente, una scheggia di luce biancastra e opaca come una nebbia. Ma eccolo, finalmente. Marceline aveva un volto. Il mito scendeva di nuovo fra gli umani. Quella nebbia aveva di nuovo dei contorni, una faccia, un corpo. Un fantasma trasportato lungo tutto un secolo, dal 1907 ad oggi. Agli occhi sgomenti di Antonia, aggrappata alla poltrona del cinema, totalmente rapita da quello che stava vedendo, fu davvero come se il grande attore ricomparisse dietro i fumi dell'Ade per portare chissà quale messaggio ai viventi. Sei secondi imprigionati in un rullo di carta della Library of Congress di Londra, trasferiti mezzo secolo fa su pellicola 16 millimetri e più recentemente su 35 millimetri. All'epoca in cui il frammento fu girato, Merceline era l'attrazione principale dell'Hippodrome. Da ragazzo era stato anche apprendista da un sarto, poi si unì alla carovana di un circo e con quello approdò a Londra sul finire dell'Ottocento. Fu lui a inaugurare il nuovo Hippodrome, nel gennaio del 1900: faceva il clown nella parte di Marceline the Droll. - Londra impazziva per lui - riconobbe Chaplin nelle sue memorie. Qualche anno più tardi si trasferì a New York, dove per dodici stagioni di fila raccolse un successo straordinario. Poi, all'improvviso, qualcosa si ruppe. Forse il genio lo abbandonò, forse con l'età si era un po' arrugginito o semplicemente andò così perchè è così che va, perchè l'altalena del successo come sale vertiginosamente altrettanto rapidamente poi è destinata a precipitare di sotto. Marceline venne messo da parte, un po' alla volta il suo pubblico lo dimenticò. Quando Chaplin lo incontrò nuovamente, anni dopo, il vecchio maestro, il grandissimo e ineguagliabile Marceline era uno dei tanti pagliacci che si esibivano nel circo a tre piste dei Ringling Brothers. Era un uomo ormai distrutto. Finì come doveva finire: nel '27 Marceline si suicidò in uno squallido alberghetto per artisti.
Antonia si staccò dal finestrino, più o meno come se avesse appena visto il fantasma di Marceline nel buio della notte, mentre il taxi risaliva la costa della collina ad est della città, nella campagna allagata di ombre scure e di piccole luci dietro le finestre delle case basse. Si vergognò di se stessa: mica voleva augurare al vecchio Walt, tutto sommato - e calcò bene tra sè quelle parole, tutto sommato - la medesima triste e ingloriosa fine. Anche se ovviamente il paragone con Marceline lo avrebbe inorgoglito oltre misura. Era stato proprio lui anni fa a farle scoprire per primo il comico spagnolo. E indubbiamente la sua ispirazione era molto chapliniana - o forse sarebbe meglio dire marceliniana, come testimoniava l'incredibile sketch della caccia all'ombra.
Adesso si starà godendo l'ultimo applauso, calcolò Antonia, frugandosi nelle tasche alla ricerca delle chiavi di casa e dei soldi per il tassista. Si era alzata apposta poco prima della fine dello show, per non sentirsi costretta a raggiungerlo dietro le quinte. Si era ripromessa di fare così fin da quando aveva letto su un giornale locale che la sua tournèe (che segnava il ritorno di Walter Brenner in teatro dopo quasi un decennio di lontananza dalla scena, nel quale si era dedicato solo a qualche comparsata in film non memorabili e a una nota pubblicità televisiva) avrebbe fatto tappa in città per tre serate. In teoria per Walter, aveva pensato Antonia, dovrebbe essere un po' come tornare a casa, quarant'anni dopo gli anni dell'università. Una specie di rimpatriata. Per quel che ne sapeva lei, non era mai più tornato da quelle parti dopo aver lasciato la facoltà di Sociologia, a pochi esami dalla laurea, per cominciare a Milano la sua carriera di attore. Avrebbe dovuto fargli piacere riannodare i fili di una parte della sua vita - una parte non secondaria, pensò Antonia: ma subito dopo considerò che quello era per l'appunto solo un suo pensiero, e lei non era lui. Conosceva troppo bene quel figlio di puttana per pensare che non l'avrebbe presa esattamente in quel modo. E in tutta onestà non era nemmeno molto sicura di volerlo andare a vedere per davvero. In ogni caso giurò a se stessa che non gli avrebbe mandato il solito mazzo di fiori in camerino nè avrebbe fatto la fila dietro le quinte, confusa nella piccola folla dei fan a caccia di un autografo, non meno esagitati di un tempo, di quando Brenner & Verdini riempivano i grandi teatri ed erano protagonisti di quella fortunatissima trasmissione televisiva, come si chiamava, Ti manda Bibì. Bibì era il soprannome che Walter usava spesso nei suoi spettacoli verso la fine degli anni Settanta, quando la sua carriera raggiuse l'apice della popolarità: quello che però nessuno sapeva era che quel nomignolo gliel'aveva affibbiato proprio lei, Antonia, quando erano ancora due ventenni smagati e ribelli, diffidenti di eroi e di miti, di grandezze e di fama.
No, si disse, cadergli di nuovo fra le braccia sarebbe stata una vera stronzata. Ah, eccolo qui il famoso comico che una volta mi faceva spanciare dalle risate. Ah, ecco qui la vecchia Antonia, come non dissimula neanche tanto bene. Per fortuna non l'aveva fatto, per fortuna non era più così cretina, concluse Antonia.
Quando arrivò a casa era quasi mezzanotte. Lui era ancora sveglio, sentiva i suoi passi sul pavimento della piccola mansarda.
- Sono stata a vedere Ovviamente non era bianco - disse, sforzandosi di parlare a voce alta. Fissò il soffitto, come se potesse vedere il marito attraverso il solaio. Silenzio. Gridò:
- SAI, L'ULTIMO SPETTACOLO DI WALT.
Perchè aveva detto "l'ultimo"? I cespugli sfoltiti, le cesoie del destino, l'orologio biologico che rallenta?
- TI RICORDI DI WALT, TESORO? WALT-ER BREN-NER...
Depositò gli orecchini in un portagioie di metallo che stava su un mobile del salotto, tolse le scarpe sfilandole con la punta dei piedi e le fece volare da qualche parte. Saltellando levò anche il vestito. Quando entrò nel bagnetto di servizio era quasi tutta nuda. Alzò ancora gli occhi al soffitto.
- Perchè eri seccato con me ieri sera?
Solo allora, abbassando lo sguardo all'ampio specchio sopra il lavandino, vide la sua faccia e quasi cacciò un urlo. Il rossetto era tutto sbavato e aveva formato una vistosa chiazza rossoscura attorno alla bocca, che sembrava così assurdamente spianata, come quella di un clown.
- Sai che l'altro giorno quassù è entrato un geko?
Antonia trattenne un improvviso desiderio di mettersi a piangere. Quando sarà successo? Quando era ancora a teatro? Contò fino a dieci, trattenendo il respiro. Forse adesso, si disse per calmarsi. Forse quando mi sono levata il vestito, di là, dopo essere entrata. Doveva essere andata così, certo.
Si sforzò di rispondere:
- Non credo che ce ne siano da queste parti.
- Quello che vuoi. Io l'ho visto. Era un geko. Stava immobile sul soffitto. Come fanno? Hanno delle specie di ventose sotto le zampe? O si aggrappano con le unghie all'intonaco?
Era la stanza che girava tutta vorticosamente o lei che... Antonia si aggrappò al lavandino. I flaconcini di solvente e di smalto da unghie che stavano allineati contro lo specchio traballarono e tintinnarono. Un paio caddero dentro il lavandino, frantumandosi e andando a formare una macchia violacea, che si allargò rapidamente. Adesso quel figlio di puttana si starà godendo l'ultimo applauso, pensò. Non era sicura che proprio quel pensiero le attraversasse la mente adesso, ma d'altra parte, si disse per calmarsi, aveva importanza? Aveva una qualche cazzo di importanza?
- Sono stata a vedere Ovviamente non era bianco. L'ultimo spettacolo di Walt. TI RICORDI DI WALT, TESORO?
- No. E comunque, non ero affatto seccato con te ieri sera.
- TI RICORDI DI WALT, TESORO?
- ...
- TI RICORDI DI WALT, TESORO?
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Desastres de la guerra*
Scendere dal treno, percorrere il tunnel delle luci gialle sotto i binari e uscire dalla stazione, è una prolungata e dolorosa fatica mentale. Un mendicante, a cui regalo qualche spicciolo, mi sorride infinitamente grato, non certo per quel poco denaro. Ma l'atmosfera è da Desastres de la guerra di Goya. Bambini pallidi, non corrono neanche più, sono stanchissimi, e i genitori li guardano seduti sotto i tabelloni elettronici. Un cretino si mette a gridare; indossa una giacca così brutta che spero gli venga rubata, fatta a pezzi, buttata sotto a un treno. Il signore anziano dall'aria distinta con il quale ho diviso per un paio d'ore lo scompartimento si congeda in fretta: «I semplici racconti sui viaggi non hanno minimamente a che fare con la realtà...» dice. Sorride beatamente, scoprendo i denti. Poi, mentre si allontana, leggermente curvo, costeggiando una fila alberata davanti a grigi palazzoni, fisso i suoi tacchi che battono sull'asfalto. «Costui ha l'abitudine di farsi lustrare le scarpe!» penso.
Esco dalla gigantesca porta a vetri. In una mano stringo una borsa pesante; nell'altra, dentro la tasca, una lettera sgualcita. Le gambe sono indolenzite per il lungo viaggio, ma l'aria della sera è buona, perciò traverso la via persino allegramente. Però, non so quale direzione prendere. Devo trovare un indirizzo: Rue Sant-Denis 18. Mio zio***, il fratello di mio padre, che non vedo da quando ero ragazzino, e del quale peraltro ho solo pochi ricordi, confusi nella nebbia della memoria, mi starà già aspettando da un pezzo, l'appuntamento era per la mattina, ma il treno ha avuto un gran ritardo e dopotutto non è certo colpa mia se c'è stato uno stupido guasto alla motrice, appena passata la frontiera, ma adesso lo zio mi starà aspettando almeno per la cena, nella sua bellissima casa di Rue Sant-Denis 18, e non posso deluderlo. Bisogna cercare tra i sontuosi androni del centro, lì dentro è pieno di gente che sta bene, chissà se qualcuno conosce ***, ricco spedizioniere in pensione, e la bella Angelique, la fedele segretaria alla Savànt & Co. Import export, da dieci anni esatti sua convivente... Chiedo informazioni a un passante, un giovane dalla faccia gialla e totalmente spianata: Rue Sant-Denis, capisce? gli ripeto due o tre volte. L'altro allarga le braccia, non parla, ma fa un'espressione ridicolmente contrita, forse è muto.
Più avanti, la strada sprofonda verso il basso, nel ventre molle della città, che da questa parte è adagiata sulla riva del lago. Una manifestazione recente ha lasciato tracce visibili. Operai in sciopero contro la chiusura di una fabbrica, è quello che si capisce dai volantini che tappezzano la strada: l'avvenimento ha la sua importanza: affinché nessuno lo ignori, i sindacati hanno affisso un cartello: VERGOGNA! La redenzione dei borghesi, mi domando, è un compito senza fine? Per fortuna, tra i grandi ippocastani del viale c'è un'avvisaglia di pioggia che mi commuove. Da ogni lato, le vetrine dei negozi risplendono di luci colorate, un bambino mi segna a dito poi riprende a saltellare dietro alla sua palla, i miei vestiti sono impregnati di calore e di fumo, devo scendere in fretta prima che cali l'oscurità, ma dove andare?
«Tiralo fuori di lì!» ordina un tizio magrissimo dalla barba scura a un ragazzo mulatto, che traffica sbuffando con un bastone dentro una grata, sdraiato per terra. Siccome il ragazzo non sembra importarsene granchè di lui, l'uomo gli sferra un calcione nelle gambe, facendolo scivolare via veloce come una serpe scura.
Alla scena ha assistito una guardia, che non interviene. L'uomo in uniforme avanza lentamente sulla via, le braccia dietro la schiena, lo sguardo fisso davanti a sè. Poi si pianta a un metro di distanza dal sottoscritto e intima: «Fuori i documenti!». Siccome non riesco a comprendere il motivo di tanta fermezza, e credendo sulle prime che il comando fosse rivolto magari a qualcun altro alle mie spalle, me ne sto bello quieto. «Fuori i documenti, signore!» ripete la guardia, in perfetto italiano. E' evidente che ce l'ha con me. Cerco di prendere tempo. Mi sforzo di apparire calmo, ma sono molto nervoso, e una prima frettolosa ricerca nelle tasche non dà alcun esito. Mi pare che la guardia si spazientisca, perciò riprendo daccapo a frugarmi ovunque, con crescente agitazione, da qualche parte li avrò pur messi, quei dannati documenti, sono un tipo metodico io, non giro mai senza una carta d'identità in tasca, figurarsi in un paese straniero, eppure niente, non trovo proprio niente, e intanto l'uomo in uniforme non guarda nè dritto nè a manca, ma sembra fissare - senza guardare! - un punto davanti a sè, nel vuoto. Ha una mano aggrappata al bavero della giacca, una mano da lavoratore manuale si direbbe, dalla pianta larga e dalle dita grosse, e quando finalmente mi guarda e sorride sul suo volto si allarga un sorriso finto, vagamente ebete. Mi trovo a rimpiangere la bambina che poco fa, nel corridoio del treno, cantava a squarciagola una canzoncina francese, con evidente fastidio mio e dell'uomo distinto che stava seduto davanti a me, mentre sua madre, che era vestita solo con un tailleurino azzurro, si stringeva in un angolo rabbrividendo, fissando la sera che calava sulla campagna dietro il finestrino. I documenti, i documenti! L'uomo in uniforme insiste su questo punto. Finalmente li trovo. Lui però non li degna nemmeno di un'occhiata e si mette a ridere. Più che una risata, è un grido strozzato, che fa voltare tutte le facce sul viale. Poi la guardia se ne va, senza più curarsi di me, lasciandomi libero, lanciando nell'aria un altro paio di quelle sue orrende risate. Guardandolo bene, mi accorgo che l'uomo non indossa neppure un'uniforme, ma una semplice giacchetta di pelle nera, da cui pende sul dietro un pezzo di camicia strappata. Se ne va con facile tranquillità, la bestia, dopo avermi tenuto in apprensione, salutato e riverito dai clienti di un baretto, che si scappellano divertiti chiamandolo per nome: Bon soir, messieur Popàn! Oilà Popàn!
Prima di riprendere il cammino, esito qualche istante. L'incontro mi ha turbato. Non sono più molto sicuro di me stesso, se non riesco neppure a riconoscere una guardia da un matto, mi dico, quale sarà la mia sorte in questa città sconosciuta? Però, è anche vero che questo genere di angoscia non mi appartiene: e allora con gesto energico, forse puerilmente eccessivo, dò un calcio a una bottiglietta vuota che va a sbattere con grande frastuono contro la serranda di un negozio. In realtà, volevo colpire il tronco di un albero, un paio di metri più in là. Vorrei riprovarci, ma anche questa è una dannata fatica mentale, e passo oltre. Il gesto ha comunque avuto l'effetto sperato, mi sento sicuramente rinfrancato, ho voglia perfino di rincorrere alcune voci che si incrociano sopra la mia testa, come i contrafforti invisibili di una cattedrale di suoni e di rumori che ricadono dall'alto dopo essere rotolati su per il viale, per tutta la città che, a quest'ora, si concede alla vivace mestizia della sera. Una delle voci dice qualcosa tipo: «Le diable a tout éteint aux carreaux de l'auberge...», ma forse non è esattamente così, forse è solo una frase che ho letto da qualche parte e che mi ronza da un po' nella testa. Mi preoccupa il buio incipiente, questo viale è malamente illuminato, e penso, mentre osservo una donna che raccoglie un mucchio di biancheria sul terrazzo di una casa, dall'altra parte della strada, che davvero il mattino appartiene alle guerre leali, e la notte agli assassini.
Devo essere uno spettacolo da muovere le fantasie, penso ancora, mentre una coppia di vecchi mi passa accanto. Tasto con la mano sul mento: ho la barba da fare, sono anche tutto spettinato e avrei bisogno di una bella lavata generale.
Da questo lato della strada si aprono vicoletti scuri come trincee, ma anche altre ferite spaccano l'uniformità rigida dei palazzi. Scaloni, finestre, vecchi portici male in arnese, saliscendi improvvisi, balconcini di ferro battuto, insegne rifatte all'antica, stipiti colorati e ferri ritorti, segnali strani graffiti sui muri, altri muri, altre finestre basse, da dove si vede dentro un pezzo di casa... L'intimità violata mi fa venire la nausea, è orribile, ho visto una specchiera dalla cornice dorata su un comò disadorno e un letto fasciato da una coperta gialla, ma sono digiuno da ieri sera, e questo stato non mi consente di respirare più a lungo quest'aria di vite svogliate...
Un bagliore fioco mi fa venire in mente lo scintillare di una baionetta. Invece, è soltanto lo scatto di un accendino. L'uomo che lo sta usando, indugia a rimirare la fiamma, prima di accendersi la sigaretta. E' l'unica persona in piedi, dei tre che compongono il quadretto, a metà di un vicolo, più o meno all'altezza della grossa insegna luminosa di uno snack-bar. L'uomo che fuma indossa un impermeabile bianco e porta un cappello dello stesso colore, ben calcato sulla fronte. Ha una paio di vistosi baffi neri, le gote rosse e gli occhi profondi, e in genere il suo colorito acceso e i lineamenti marcati fanno pensare a origini esotiche, forse sudamericane. Comunque, è l'unica figura ben visibile, illuminata com'è dalla luce intermittente che cola dall'insegna. Le altre due persone sono sedute a un tavolino del bar, molto vicine, come se stessero parlottando a voce bassa. Potrebbero sembrare un sacerdote e un penitente alle prese con una elaborata confessione.
Mi sono fermato all'imbocco del vicolo giusto per deporre a terra la pesante valigia e per riposare un po' il braccio, solo qualche istante, poi faccio per ripartire, quando sento che all'improvviso una delle persone sedute al tavolino del bar si mette a piangere. Riesco solo a udire un lamento lontano, ma è chiaramente il pianto di una persona disperata. Si direbbe, a giudicare dalla voce, il pianto di un uomo anziano. Questo particolare mi incuriosisce. Indugio ancora, prima di rimettermi in marcia, poi decido di imboccare il vicolo, anzichè proseguire per la via larga di prima, anche perchè mi pare che per questa direzione si giunga più rapidamente nella zona del centro. Invece, ben presto mi rendo conto che il vicolo in realtà non porta da nessuna parte e che molto probabilmente finisce lì davanti, una ventina di metri dopo i tavolini del bar, che ne ostruiscono quasi interamente il passaggio.
Ancora una volta non so decidermi sul da farsi, ma intanto le gambe camminano per proprio conto e sono quasi a ridosso del terzetto. Ora posso ascoltare facilmente i lamenti del vecchio, e i sospiri con cui egli spezza di tanto in tanto il ritmo dei singulti, asciugandosi gli occhi con un fazzoletto. Il tizio seduto accanto a lui indossa una tonaca da prete, almeno così mi sembra (dopo l'esperienza con la guardia non sono più sicuro di niente...), e questo confermerebbe la mia prima impressione, quando vedendo i due uomini seduti così vicino ho pensato appunto a un sacerdote nell'atto di confessare un peccatore.
Mi fermo a pochi passi da loro. Non c'è alcun dubbio, la strada finisce una ventina di metri più in là. Sistemo la valigia fra le gambe, sconsolato. Il vecchio continua a frignare, ma adesso il suo lamento mi interessa meno, anzi mi procura un lancinante fastidio che si conficca nella mia testa peggio di una rognosa nevralgia. E' che non ho mai potuto soffrire chi esibisce in modo così spudorato il proprio dolore. E ho la netta impressione che anche il prete, o quel tizio con addosso un vestito così simile a quello dei preti, stia cominciando a manifestare una certa insofferenza. Ma in ogni caso la scena è talmente irritante che mi devo girare platealmente dal lato opposto della strada, su cui si affacciano grandi palazzi in stile neo-liberty o tardo-gotici, non ho mai avuto grande dimestichezza con le classificazioni architettoniche. E' a quel punto che intravedo, su quel lato della strada, un cartello con scritto: Rue Sant-Denis. Non è nemmeno un cartello tanto piccolo; anzi. Mentre sollevo la valigia faccio a tempo, gettando un'ultima occhiata in tralice, a scorgere l'avambraccio del prete, o di chiunque egli sia, piegato verso l'alto sopra al capo ancora più chino del vecchio, benedicente.
Sto per attraversare lietamente la strada, quando da quel vecchiaccio peccatore prorompe un gridolino roco:
«Nathaniel!»
Mi giro di scatto, strizzo gli occhi per osservarlo meglio. Non c'è dubbio che sia stato lui a gridare il mio nome. Ma chi diavolo...?
«Nathaniel!» ripete il vecchio, che si alza di scatto dal tavolino, mollando lì anche un po' troppo bruscamente il suo accompagnatore (che a dirla tutta, adesso non pare proprio un prete). Mentre si avvicina ho giusto il tempo di squadrarlo, prima che mi si pianti davanti. Possibile che...? Il mio stupore dura un soffio.
«Ciao zio». Mio zio *** mi tende le braccia, la sua bocca si spiana in un sorriso brillante. I suoi occhi luccicano alla luce del lampione giallo sopra di noi, forse sono ancora umidi di lacrime. Non sono più sicuro di niente, ormai. Tendo le braccia anch'io, ma nessuno dei due sfiora l'altro e restiamo lì così, come mimando un abbraccio. Due manichini assurdi, penso, e mi scappa una risata.
«Nathaniel!» ripete ancora una volta lo zio. E aggiunge: - Eccezionale! Ti ho lasciato che eri... E adesso guardati, mon Dieu! Un uomo fatto. Quand'è che...»
«Poco fa. Il treno ha avuto un ritardo mostruoso.»
«E' la serata di gala del Crystal» dice lo zio, infilandomi fra una piccola folla che nel frattempo si sta componendo sul bordo della strada, all'ingresso di un albergo di lusso. Una signora impellicciata quasi ci cade fra le braccia. Mentre passiamo la sento imprecare sottovoce, il suo alito mi bagna il collo in una piccola nube di vapore.
«Hai cenato? No, che stupido, certo che non puoi aver cenato. Fortuna che Angelique ha preparato tutto. Te la ricordi Angelique vero?» Annuisco. «E' l'unica che ho trovato nella mia vita che non mi abbia mai detto mi piace, io vorrei, eccetera».
«Non è una cosa di poco conto, direi» rispondo.
«Il fratello beve come una spugna, ma non è un bastardo né altro. E' un bravo ragazzo, ogni tanto viene a stare da noi. Ma perchè 'sta gente blocca il passaggio? Vieni da questa parte...»
Mi spinge verso un varco fra un gruppetto di uomini in frac, credo di non avere mai visto dal vero uomini che indossano il frac, cerco di non osservarli in modo inopportuno.
Quando siamo finalmente dall'altra parte della strada, noto sull'asfalto l'esile corpicino di un uccello, senza vita. L'aria leggera della sera gli accarezza pietosamente le piume, sollevandole piano. Sembra un uccellino di pochi giorni, caduto probabilmente da qualche nido. Istintivamente, alzo gli occhi in alto, sulle chiome degli ippocastani allineate sopra di noi, e più in alto, sui grandi finestroni del palazzo verso il cui ingresso siamo diretti. Scorro i rettangoli contornati di bianco, illuminati dalle solite luci serali, dall'alto verso il basso: sette, sei, cinque. Quarto piano. Eccola lì, la finestra dello studio dello zio. Lascio che lui mi preceda di qualche metro, mi fermo un attimo con il naso all'insu, la finestra riverbera una luce più fioca rispetto alle altre finestre, immagino la luce della lampada da tavolo sulla scrivania ordinatissima dello zio, l'orribile soffice moquette a pelo lungo di colore blu elettrico, le grandi librerie stracolme di volumi antichi e di cineserie, il divanetto di pelle sdrucita dai grandi bottoni, l'odore di chiuso, un tanfo familiare, curiosamente misto a odore di sudore (di vecchio) e di urina. Extraordinaire! esclamava lo zio ***, scaraventandomi per gioco sul divanetto dopo avermi portato a cavalcioni sulla sua schiena per tutta la casa. Il suo studio era la nostra tanière. Aveva unghie lunghe e affilate, un alito cattivo e puzzava sempre di sudore. Come si faceva a non compatirlo, quel vecchio pazzo.
Mentre allungo il passo per raggiungere lo zio, che con un piede mi sta tenendo aperto il portone del palazzo, tasto per sicurezza con una mano la tasca destra della giacca, dove tengo la busta. Sapere di averla addosso mi tranquillizza. Quando stanotte mi troveranno, penso, ogni cosa sarà finalmente più chiara per tutti.
*Questo è un racconto molto vecchio, credo che risalga a trent'anni fa o giù di lì. Nonostante ciò - e malgrado si veda che è incerto e forse anche ingenuo - mi piaceva l'idea di partire proprio da qui, cioè dall'inizio. [df]
Esco dalla gigantesca porta a vetri. In una mano stringo una borsa pesante; nell'altra, dentro la tasca, una lettera sgualcita. Le gambe sono indolenzite per il lungo viaggio, ma l'aria della sera è buona, perciò traverso la via persino allegramente. Però, non so quale direzione prendere. Devo trovare un indirizzo: Rue Sant-Denis 18. Mio zio***, il fratello di mio padre, che non vedo da quando ero ragazzino, e del quale peraltro ho solo pochi ricordi, confusi nella nebbia della memoria, mi starà già aspettando da un pezzo, l'appuntamento era per la mattina, ma il treno ha avuto un gran ritardo e dopotutto non è certo colpa mia se c'è stato uno stupido guasto alla motrice, appena passata la frontiera, ma adesso lo zio mi starà aspettando almeno per la cena, nella sua bellissima casa di Rue Sant-Denis 18, e non posso deluderlo. Bisogna cercare tra i sontuosi androni del centro, lì dentro è pieno di gente che sta bene, chissà se qualcuno conosce ***, ricco spedizioniere in pensione, e la bella Angelique, la fedele segretaria alla Savànt & Co. Import export, da dieci anni esatti sua convivente... Chiedo informazioni a un passante, un giovane dalla faccia gialla e totalmente spianata: Rue Sant-Denis, capisce? gli ripeto due o tre volte. L'altro allarga le braccia, non parla, ma fa un'espressione ridicolmente contrita, forse è muto.
Più avanti, la strada sprofonda verso il basso, nel ventre molle della città, che da questa parte è adagiata sulla riva del lago. Una manifestazione recente ha lasciato tracce visibili. Operai in sciopero contro la chiusura di una fabbrica, è quello che si capisce dai volantini che tappezzano la strada: l'avvenimento ha la sua importanza: affinché nessuno lo ignori, i sindacati hanno affisso un cartello: VERGOGNA! La redenzione dei borghesi, mi domando, è un compito senza fine? Per fortuna, tra i grandi ippocastani del viale c'è un'avvisaglia di pioggia che mi commuove. Da ogni lato, le vetrine dei negozi risplendono di luci colorate, un bambino mi segna a dito poi riprende a saltellare dietro alla sua palla, i miei vestiti sono impregnati di calore e di fumo, devo scendere in fretta prima che cali l'oscurità, ma dove andare?
«Tiralo fuori di lì!» ordina un tizio magrissimo dalla barba scura a un ragazzo mulatto, che traffica sbuffando con un bastone dentro una grata, sdraiato per terra. Siccome il ragazzo non sembra importarsene granchè di lui, l'uomo gli sferra un calcione nelle gambe, facendolo scivolare via veloce come una serpe scura.
Alla scena ha assistito una guardia, che non interviene. L'uomo in uniforme avanza lentamente sulla via, le braccia dietro la schiena, lo sguardo fisso davanti a sè. Poi si pianta a un metro di distanza dal sottoscritto e intima: «Fuori i documenti!». Siccome non riesco a comprendere il motivo di tanta fermezza, e credendo sulle prime che il comando fosse rivolto magari a qualcun altro alle mie spalle, me ne sto bello quieto. «Fuori i documenti, signore!» ripete la guardia, in perfetto italiano. E' evidente che ce l'ha con me. Cerco di prendere tempo. Mi sforzo di apparire calmo, ma sono molto nervoso, e una prima frettolosa ricerca nelle tasche non dà alcun esito. Mi pare che la guardia si spazientisca, perciò riprendo daccapo a frugarmi ovunque, con crescente agitazione, da qualche parte li avrò pur messi, quei dannati documenti, sono un tipo metodico io, non giro mai senza una carta d'identità in tasca, figurarsi in un paese straniero, eppure niente, non trovo proprio niente, e intanto l'uomo in uniforme non guarda nè dritto nè a manca, ma sembra fissare - senza guardare! - un punto davanti a sè, nel vuoto. Ha una mano aggrappata al bavero della giacca, una mano da lavoratore manuale si direbbe, dalla pianta larga e dalle dita grosse, e quando finalmente mi guarda e sorride sul suo volto si allarga un sorriso finto, vagamente ebete. Mi trovo a rimpiangere la bambina che poco fa, nel corridoio del treno, cantava a squarciagola una canzoncina francese, con evidente fastidio mio e dell'uomo distinto che stava seduto davanti a me, mentre sua madre, che era vestita solo con un tailleurino azzurro, si stringeva in un angolo rabbrividendo, fissando la sera che calava sulla campagna dietro il finestrino. I documenti, i documenti! L'uomo in uniforme insiste su questo punto. Finalmente li trovo. Lui però non li degna nemmeno di un'occhiata e si mette a ridere. Più che una risata, è un grido strozzato, che fa voltare tutte le facce sul viale. Poi la guardia se ne va, senza più curarsi di me, lasciandomi libero, lanciando nell'aria un altro paio di quelle sue orrende risate. Guardandolo bene, mi accorgo che l'uomo non indossa neppure un'uniforme, ma una semplice giacchetta di pelle nera, da cui pende sul dietro un pezzo di camicia strappata. Se ne va con facile tranquillità, la bestia, dopo avermi tenuto in apprensione, salutato e riverito dai clienti di un baretto, che si scappellano divertiti chiamandolo per nome: Bon soir, messieur Popàn! Oilà Popàn!
Prima di riprendere il cammino, esito qualche istante. L'incontro mi ha turbato. Non sono più molto sicuro di me stesso, se non riesco neppure a riconoscere una guardia da un matto, mi dico, quale sarà la mia sorte in questa città sconosciuta? Però, è anche vero che questo genere di angoscia non mi appartiene: e allora con gesto energico, forse puerilmente eccessivo, dò un calcio a una bottiglietta vuota che va a sbattere con grande frastuono contro la serranda di un negozio. In realtà, volevo colpire il tronco di un albero, un paio di metri più in là. Vorrei riprovarci, ma anche questa è una dannata fatica mentale, e passo oltre. Il gesto ha comunque avuto l'effetto sperato, mi sento sicuramente rinfrancato, ho voglia perfino di rincorrere alcune voci che si incrociano sopra la mia testa, come i contrafforti invisibili di una cattedrale di suoni e di rumori che ricadono dall'alto dopo essere rotolati su per il viale, per tutta la città che, a quest'ora, si concede alla vivace mestizia della sera. Una delle voci dice qualcosa tipo: «Le diable a tout éteint aux carreaux de l'auberge...», ma forse non è esattamente così, forse è solo una frase che ho letto da qualche parte e che mi ronza da un po' nella testa. Mi preoccupa il buio incipiente, questo viale è malamente illuminato, e penso, mentre osservo una donna che raccoglie un mucchio di biancheria sul terrazzo di una casa, dall'altra parte della strada, che davvero il mattino appartiene alle guerre leali, e la notte agli assassini.
Devo essere uno spettacolo da muovere le fantasie, penso ancora, mentre una coppia di vecchi mi passa accanto. Tasto con la mano sul mento: ho la barba da fare, sono anche tutto spettinato e avrei bisogno di una bella lavata generale.
Da questo lato della strada si aprono vicoletti scuri come trincee, ma anche altre ferite spaccano l'uniformità rigida dei palazzi. Scaloni, finestre, vecchi portici male in arnese, saliscendi improvvisi, balconcini di ferro battuto, insegne rifatte all'antica, stipiti colorati e ferri ritorti, segnali strani graffiti sui muri, altri muri, altre finestre basse, da dove si vede dentro un pezzo di casa... L'intimità violata mi fa venire la nausea, è orribile, ho visto una specchiera dalla cornice dorata su un comò disadorno e un letto fasciato da una coperta gialla, ma sono digiuno da ieri sera, e questo stato non mi consente di respirare più a lungo quest'aria di vite svogliate...
Un bagliore fioco mi fa venire in mente lo scintillare di una baionetta. Invece, è soltanto lo scatto di un accendino. L'uomo che lo sta usando, indugia a rimirare la fiamma, prima di accendersi la sigaretta. E' l'unica persona in piedi, dei tre che compongono il quadretto, a metà di un vicolo, più o meno all'altezza della grossa insegna luminosa di uno snack-bar. L'uomo che fuma indossa un impermeabile bianco e porta un cappello dello stesso colore, ben calcato sulla fronte. Ha una paio di vistosi baffi neri, le gote rosse e gli occhi profondi, e in genere il suo colorito acceso e i lineamenti marcati fanno pensare a origini esotiche, forse sudamericane. Comunque, è l'unica figura ben visibile, illuminata com'è dalla luce intermittente che cola dall'insegna. Le altre due persone sono sedute a un tavolino del bar, molto vicine, come se stessero parlottando a voce bassa. Potrebbero sembrare un sacerdote e un penitente alle prese con una elaborata confessione.
Mi sono fermato all'imbocco del vicolo giusto per deporre a terra la pesante valigia e per riposare un po' il braccio, solo qualche istante, poi faccio per ripartire, quando sento che all'improvviso una delle persone sedute al tavolino del bar si mette a piangere. Riesco solo a udire un lamento lontano, ma è chiaramente il pianto di una persona disperata. Si direbbe, a giudicare dalla voce, il pianto di un uomo anziano. Questo particolare mi incuriosisce. Indugio ancora, prima di rimettermi in marcia, poi decido di imboccare il vicolo, anzichè proseguire per la via larga di prima, anche perchè mi pare che per questa direzione si giunga più rapidamente nella zona del centro. Invece, ben presto mi rendo conto che il vicolo in realtà non porta da nessuna parte e che molto probabilmente finisce lì davanti, una ventina di metri dopo i tavolini del bar, che ne ostruiscono quasi interamente il passaggio.
Ancora una volta non so decidermi sul da farsi, ma intanto le gambe camminano per proprio conto e sono quasi a ridosso del terzetto. Ora posso ascoltare facilmente i lamenti del vecchio, e i sospiri con cui egli spezza di tanto in tanto il ritmo dei singulti, asciugandosi gli occhi con un fazzoletto. Il tizio seduto accanto a lui indossa una tonaca da prete, almeno così mi sembra (dopo l'esperienza con la guardia non sono più sicuro di niente...), e questo confermerebbe la mia prima impressione, quando vedendo i due uomini seduti così vicino ho pensato appunto a un sacerdote nell'atto di confessare un peccatore.
Mi fermo a pochi passi da loro. Non c'è alcun dubbio, la strada finisce una ventina di metri più in là. Sistemo la valigia fra le gambe, sconsolato. Il vecchio continua a frignare, ma adesso il suo lamento mi interessa meno, anzi mi procura un lancinante fastidio che si conficca nella mia testa peggio di una rognosa nevralgia. E' che non ho mai potuto soffrire chi esibisce in modo così spudorato il proprio dolore. E ho la netta impressione che anche il prete, o quel tizio con addosso un vestito così simile a quello dei preti, stia cominciando a manifestare una certa insofferenza. Ma in ogni caso la scena è talmente irritante che mi devo girare platealmente dal lato opposto della strada, su cui si affacciano grandi palazzi in stile neo-liberty o tardo-gotici, non ho mai avuto grande dimestichezza con le classificazioni architettoniche. E' a quel punto che intravedo, su quel lato della strada, un cartello con scritto: Rue Sant-Denis. Non è nemmeno un cartello tanto piccolo; anzi. Mentre sollevo la valigia faccio a tempo, gettando un'ultima occhiata in tralice, a scorgere l'avambraccio del prete, o di chiunque egli sia, piegato verso l'alto sopra al capo ancora più chino del vecchio, benedicente.
Sto per attraversare lietamente la strada, quando da quel vecchiaccio peccatore prorompe un gridolino roco:
«Nathaniel!»
Mi giro di scatto, strizzo gli occhi per osservarlo meglio. Non c'è dubbio che sia stato lui a gridare il mio nome. Ma chi diavolo...?
«Nathaniel!» ripete il vecchio, che si alza di scatto dal tavolino, mollando lì anche un po' troppo bruscamente il suo accompagnatore (che a dirla tutta, adesso non pare proprio un prete). Mentre si avvicina ho giusto il tempo di squadrarlo, prima che mi si pianti davanti. Possibile che...? Il mio stupore dura un soffio.
«Ciao zio». Mio zio *** mi tende le braccia, la sua bocca si spiana in un sorriso brillante. I suoi occhi luccicano alla luce del lampione giallo sopra di noi, forse sono ancora umidi di lacrime. Non sono più sicuro di niente, ormai. Tendo le braccia anch'io, ma nessuno dei due sfiora l'altro e restiamo lì così, come mimando un abbraccio. Due manichini assurdi, penso, e mi scappa una risata.
«Nathaniel!» ripete ancora una volta lo zio. E aggiunge: - Eccezionale! Ti ho lasciato che eri... E adesso guardati, mon Dieu! Un uomo fatto. Quand'è che...»
«Poco fa. Il treno ha avuto un ritardo mostruoso.»
«E' la serata di gala del Crystal» dice lo zio, infilandomi fra una piccola folla che nel frattempo si sta componendo sul bordo della strada, all'ingresso di un albergo di lusso. Una signora impellicciata quasi ci cade fra le braccia. Mentre passiamo la sento imprecare sottovoce, il suo alito mi bagna il collo in una piccola nube di vapore.
«Hai cenato? No, che stupido, certo che non puoi aver cenato. Fortuna che Angelique ha preparato tutto. Te la ricordi Angelique vero?» Annuisco. «E' l'unica che ho trovato nella mia vita che non mi abbia mai detto mi piace, io vorrei, eccetera».
«Non è una cosa di poco conto, direi» rispondo.
«Il fratello beve come una spugna, ma non è un bastardo né altro. E' un bravo ragazzo, ogni tanto viene a stare da noi. Ma perchè 'sta gente blocca il passaggio? Vieni da questa parte...»
Mi spinge verso un varco fra un gruppetto di uomini in frac, credo di non avere mai visto dal vero uomini che indossano il frac, cerco di non osservarli in modo inopportuno.
Quando siamo finalmente dall'altra parte della strada, noto sull'asfalto l'esile corpicino di un uccello, senza vita. L'aria leggera della sera gli accarezza pietosamente le piume, sollevandole piano. Sembra un uccellino di pochi giorni, caduto probabilmente da qualche nido. Istintivamente, alzo gli occhi in alto, sulle chiome degli ippocastani allineate sopra di noi, e più in alto, sui grandi finestroni del palazzo verso il cui ingresso siamo diretti. Scorro i rettangoli contornati di bianco, illuminati dalle solite luci serali, dall'alto verso il basso: sette, sei, cinque. Quarto piano. Eccola lì, la finestra dello studio dello zio. Lascio che lui mi preceda di qualche metro, mi fermo un attimo con il naso all'insu, la finestra riverbera una luce più fioca rispetto alle altre finestre, immagino la luce della lampada da tavolo sulla scrivania ordinatissima dello zio, l'orribile soffice moquette a pelo lungo di colore blu elettrico, le grandi librerie stracolme di volumi antichi e di cineserie, il divanetto di pelle sdrucita dai grandi bottoni, l'odore di chiuso, un tanfo familiare, curiosamente misto a odore di sudore (di vecchio) e di urina. Extraordinaire! esclamava lo zio ***, scaraventandomi per gioco sul divanetto dopo avermi portato a cavalcioni sulla sua schiena per tutta la casa. Il suo studio era la nostra tanière. Aveva unghie lunghe e affilate, un alito cattivo e puzzava sempre di sudore. Come si faceva a non compatirlo, quel vecchio pazzo.
Mentre allungo il passo per raggiungere lo zio, che con un piede mi sta tenendo aperto il portone del palazzo, tasto per sicurezza con una mano la tasca destra della giacca, dove tengo la busta. Sapere di averla addosso mi tranquillizza. Quando stanotte mi troveranno, penso, ogni cosa sarà finalmente più chiara per tutti.
*Questo è un racconto molto vecchio, credo che risalga a trent'anni fa o giù di lì. Nonostante ciò - e malgrado si veda che è incerto e forse anche ingenuo - mi piaceva l'idea di partire proprio da qui, cioè dall'inizio. [df]