Le difficoltà
Gli avvoltoi di Hellbrunn
Gli avvoltoi di Hellbrunn sono indulgenti nei confronti del loro pezzo di cielo - al di fuori di ogni tradimento del tempo, cioè. Tutto come secoli fa. Un cielo sdrucciolevole, ma autentico, così dicono. Gli uccelli volano quasi alla cieca o comunque indifferenti al variare delle correnti d'aria: e che cos'è il volo se non il respiro del cielo? Questa è ciò che si chiama la Planetarietà della Giostra, come scrisse Marina Cvetaeva. Planetarietà della Giostra! Musica delle sfere del suo ululante pilastro! Non è la terra che gira attorno al suo asse, ma il cielo - attorno al suo! E' necessario che gli avvoltoi sopravvivano al loro volo. Andavano e venivano dai cieli di tutta Europa. E ancora succede così. Il loro reciproco vegliare sulla propria sopravvivenza sembra più forte della fame, dell'indecenza, della vergogna, e anche dell'odio per il popolo. Il diavolo li capisce! Albeggia appena sugli avamposti. Strade vuote, finestre chiuse, dolore nascosto. Un tizio che era partito con il fucile in spalla se ne ritorna con le patate in tasca. Cosa ci facciamo qui quando fuori infuria la battaglia? Niente. Ecco perché trasmigriamo. Dove? A Berlino, a Digione, a Budapest... Nell'estate del 1913, nei dintorni del castello di Blühnbach, durante una battuta di caccia, il successore al trono d'Asburgo Francesco Ferdinando abbattè un esemplare rarissimo di camoscio albino. Un servitore scostò la terra con un calcio, cupo in volto. Secondo una leggenda infausta, Altezza, Ella è destinata a morire entro l'anno... Francesco Ferdinando pensava che tutto ciò, naturalmente, fosse possibile. Oh avete perfettamente ragione! disse. E inarcò il petto, con la stessa orgogliosa protervia, con la medesima rassegnata disposizione alla volontà del Fato, con quella divina inclinazione al sacrificio di quando, esattamente un anno dopo, cadde sotto i colpi di pistola dell'irredentista serbo Gavilo Princip, a Sarajevo.
Benny il costruttore
Era andato a Tèpida per alcuni giorni, sai, e aveva fatto ritorno quel pomeriggio con una faccia pallida e svagata, disse che aveva sentito un antico e doloroso distacco e io non riuscivo a capire il senso di quella frase, che però, verso la fine della serata, fu abbastanza cortese da spiegarmi. Quando era uscito di casa, mi ha raccontato, aveva visto una giacca da muratore per terra, abbandonata. Mi ha detto proprio: - Una giacca da muratore - e non ho dubbi che fosse così. Sai, Benny ha fatto studi tecnici da giovane e i suoi amici già dai tempi della scuola lo hanno sempre chiamato Benny il costruttore, nome che poi gli è rimasto addosso per tutta la vita. Perciò, se ha detto che quella era una giacca da muratore, c'è da credergli. - È del mio compare - ha aggiunto. La nostra casa, sai, confina col bosco e non ce ne sono altre intorno eccetto quella di Lu-Jo, il fotografo. - Sei sicuro che fosse sua? - gli ho chiesto. Sapevo che non poteva essere altrimenti. Ma Lu-Jo è morto da una settimana. - Sicuro che sono sicuro. La indossava l'ultima volta che l'ho visto, stava ristrutturando casa, ricordi? Bè, l'immagine del mio compare che porterò sempre dentro di me finchè campo è di lui con addosso quella giacca. Ma la domanda che mi ha corroso il cervello in questi giorni è questa: che ci faceva la sua giacca per terra, davanti a casa nostra? Che segnale potrà mai essere, mi chiedo. - Ho scrollato il capo. Gli ho detto che non lo so. Che forse non è un segnale. Perchè pensava quello? Solo allora mi sono resa conto dell'affanno con cui mi parlava: doveva avere trascorso giorni terribili, sai.
La Mosca
Lei era bella, con il vestitonuda, in piedi sulla soglia della cucina. La stamberga dove abitava, in cima al monte, sembrava una vecchia abbazia in bello stile gotico. Glielo dissi, ma era chiaro che soltanto io la vedevo così. Mi disse che aveva dovuto riempire gli interstizi con lo sterco di vacca, la calcina non ce l'aveva. Il cielo era azzurro, l'aria calda montava a ondate sul prato senza erba, fitto però di arbusti piccoli e taglienti. Così le vacche morivano e anche le pecore erano sempre più magre. Quanti anni saranno passati, mia cara? Cinquanta, cinquantacinque. Quante vite sono? Quanti ardori, quanta vanitas?
Corpi restituiti dalle acque
Quando Mizia se ne andò di casa, lasciò solo scritto: Detesto gli addii. Sapeva che anche per lei era così: che tutte le volte che aveva vissuto qualcosa di speciale, avrebbe voluto viverlo con qualcun altro. E non era stato per quei sette anni di buio totale, che una banale caduta dalla scale gli aveva steso sulla sua memoria come una crosta di neve ghiacciata, se poi aveva deciso di congedarsi da se stesso, in un certo senso. La fuga – perchè di fuga si trattava ma era troppo disonesto per ammetterlo – Mizia l’aveva avuta in testa da sempre. Era la sua condizione privilegiata, quella del fuggitivo. O meglio: quella di chi fugge dalle proprie terre prima ancora di averle conquistate.
Jacky Caffrey, con Tommy Caffrey alle calcagna
Uno di quegli stupidi incidenti, per lieve distrazione, che rimangono impressi per sempre nella memoria di un bambino. Accadde al termine dell’estate in cui Jacky Caffrey aveva insegnato a suo fratello Tommy Caffrey perché nell’Africa equatoriale c’è una grande varietà di leoni. Un paio di giorni dopo mandarono al diavolo tutti quanti e si rintanarono nella baracca del vecchio bavoso Gundo-faccia-di-cavallo, giù alla ferrovia. Oh, le maledizioni che scagliarono al cielo al primo passaggio dell’accelerato 520 che sferragliò in un bagliore di polvere bianca! – E’ proprio un superficiale, mio fratello Tommy – meditò Jacky Caffrey. – Ed è davvero molto piccolo... – Così pensava, un po’ preoccupato di non vederselo spuntare al fianco, mentre lui invece se ne stava già seduto sul prato al di là del muretto di cinta dell’Orto Botanico, tra il gasometro e il fiume (dove, come dicono i vecchi, il cerimonioso mangiamorti ondeggia sopra la terra dell’antico incanto).
– Dài, Tommy, te li regalo quei maledettissimi pattini! – strillò nel vento. E il vento di rimando:
– ... maledettissimi!
E le cornacchie in coro:
– ... maledettissimi!
E le betulle insolenti:
– ... maledettissimi!
I muri della cucina luccicavano di zia Betty luccicavano e la credenza era al ancora al suo posto, come sempre, come ogni pomeriggio alle tre quando i bravi bambini si raccoglievano attorno al tavolo per ritagliare le figurine di carta. Grace si sedeva sul cesto portagiornali, era il suo privilegio. Ognuno deve avere un privilegio nella vita, così pensava zia Betty, per questo era una persona come si deve.
– Oggi ho solo tre uomini nella mia casa – cantilenò con l’aria corrucciata quel giorno. Il treno fischiò di nuovo. Dalla casa della zia Betty alla ferrovia era una volata, un tiro di sputo, un amen. Dal centro del fiume arrivava un lampo di luce, a tratti, perché il sole riverberava i ruoi raggi sull’acqua melmosa.
– Uno, due, tre. E il quarto ometto? Jacky, dov’è tuo fratello?
Nella ex Centrale Idroelettrica
«Il Boscimano si accorge dell'arrivo di qualcuno, da lontano, quando gli duole un punto del corpo che corrisponde alla sua cicatrice, quando sente, nella propria carne, la ferita dell'altro».
D. rilesse più volte quello che aveva appena annotato, verificando di aver copiato bene dalla rivista che stava aperta sul tavolo, accanto al Registro dell'Acqua. Poi, sulla stessa pagina del librone, scrisse ancora: 1 M. E 40 CM. / ACQUA MARRONE - DETRITI - PIOGGIA ALLA SORGENTE? / TEMPERATURA: NON RILEVATA.
Alla fine, dovette sospendere la trascrizione, perché una sigaretta quasi lo intossicava. Per un po' lottò accanitamente con il fumo, finchè si rassegnò ad alzarsi e a spalancare una finestra. Aspirò avidamente un paio di boccate. Il vento era freddo, il sole non riscaldava. «La gente se ne sta chiusa in casa - annotò D. mentalmente - solo di tanto in tanto si sente qualche vetro tintinnare: sono quelli che prendono una boccata d'aria. Ansimano tutti insieme, aprendo le finestre delle case, e i loro petti si riempiono d'aria e si svuotano nello stesso momento, in un ritmo regolare... Oh, ma finalmente è arrivato qualcuno sprezzante delle strade già battute!» Sulla sponda opposta del fiume, infatti, un vecchio dalla giubba marrone orlata di giallo e con gli zoccoli ai piedi stava cercando un varco nella rete. Aveva un'aria cenciosa. «E' arrivato col primo autobus del pomeriggio», calcolò D. Il vecchio fece il giro lungo per scendere di sotto, passò cioè oltre il cancelletto e la scala di pietra e si ficcò tra i cespugli, scivolando con il culo giù per l'argine di muschio. Poi si sedette, con la testa tra le mani, a un metro dall'acqua che zampillava tra le rocce e si spandeva in una semiluna erbosa.
D. ripeteva spesso: «Il fiume è il primo posto dove vanno gli assassini». Perciò, vi si dedicava senza passione, anzi con distacco, svolgendo il suo lavoro come se dovesse affrontare, ogni giorno, un'incombenza fastidiosa. A volte, temendo di non essere in grado di sopportare la vista di qualcuno, se ne stava rintanato nel gabbiotto del suo ufficio, nella ex Centrale Idroelettrica, dalla mattina a sera inoltrata. E veramente, l'interno dell'edificio era insignificante, ma così castamente silenzioso! Ogni giorno, entrando e uscendo, D. ne contemplava la spaziosità.
Il sogno più stravagante e insolito che un uomo possa mai fare
David F. comincia a sognare. Immagina di guardarsi allo specchio e di scoprire di avere una grossa fronte sporgente sopra uno sguardo cagnesco, una bocca digrignante e un collo tozzo da mastino: una specie di mostro, insomma, anche se non prova affatto spavento o terrore, tutt'al più un vago compiacimento per quella sua aria di completa insubordinazione. Poi la scena cambia. Ora egli sta guardando alternativamente i palmi delle sue mani e i piedi, penzolanti dal cassone di un camion, che segue a stento il percorso accidentato della strada sterrata, piena di buche, alla periferia di una città. La strada porta a un luogo, egli pensa, in cui probabilmente nascono le cose. xxx, che lo accompagna, ha calzoni sdruciti e un fazzoletto al collo. E’ stato un compagno di scuola, delle elementari forse. David F. non sa bene che cosa fare: questo è il destino, pensa, bisogna passarci in mezzo. E' xxx che ha saputo cogliere con lucidità la voce dell'Incantatore divino. Lui invece è divorato dall'ansia di raggiungere la Terra Promessa, e di far bene. Sul ciglio della strada, lungo i muri delle case, sta una fila interminabile di volti anonimi, ognuno raffigurante un aspetto della Misericordia divina. David F. ha paura di scorgere, tra gli altri, anche il suo volto. xxx lo guarda come si guarderebbe un deficiente: ma con amore, sfiorandolo appena con uno sguardo tranquillo. Poi lo scaraventa giù dal cassone del camion. David F. comincia a camminare, non lungo la strada, ma tagliando direttamente per i campi, lasciandosi sopravanzare dai fusti alti della vegetazione, verso un orizzonte che si tinge di indaco. Si avventura così fuori città, da solo, passando le ultime case, la periferia ora altissima contro il cielo ribollito ora bassissima sul dorso della terra nuda. Più avanti, c'è solo uno spazio che cambia a ogni occhiata e che egli sospetta sia lo spazio, semplicemente, della sua immaginazione. Qui la terra è fresca, opportunamente smossa, quindi fertile. Lampi su xxx e i campi attorno e la Palude. Il mondo è la storia e il cosmo è un tempo senza scansioni, un presente-assente che si manifesta nel guizzo di una falce di luna biancheggiante sulla Palude. Ma David F. adesso sa con certezza che non è solo David F., è anche xxx. Questo lo mette al riparo da ogni apprensione circa il suo futuro, benchè sappia benissimo che non ci si possa fidare della sorte, e allora sente una fitta stringergli il cuore. Prende una barchetta, solca la crosta melmosa della Palude che però si scioglie rapidamente sotto l'urto della prua, finchè scorge in lontananza un complesso termale, un lungo edificio basso, a due o tre piani appena, ma allungato appunto sulla terraferma. Accosta e scende. Quando raggiunge il padiglione centrale si ferma a respirare l'odore della macchia boschiva che vede in lontananza, scura nella luce bassa della notte, fitta di gaggie e sambuchi, pini marittimi, querce secolari. Dentro, nel Salone degli Specchi, c'è una specie di ricevimento. In realtà, nel grande locale non ci sono specchi, ma tende di raso rosso che coprono le pareti. David F. guarda con rassegnazione e schifo le facce anonime dei convitati. Crede che tutti si occupino, in un modo o nell'altro, del suo destino, benchè a tutti ignoto. Perciò saluta con deferenza e, portandosi una mano al petto, comincia a parlare. Accade così che, mntre tutti si fanno da parte, egli tenga la prima Orazione funebre della sua vita: Letterati! Scienziati! Uomini di fede! Politici! A qualcuno di voialtri sarà pur capitato di rendersi conto, col morire, di avere lasciato qualcosa di utile. Egli non fu mai nemmeno sfiorato da quello che si dice il perbenismo borghese. E tanta fiducia e una serenità complicità con il Bene lo hanno messo al riparo dal mondo. Perciò era stucchevolmente innocente. Vestiva in doppiopetto e scarpe tirate a lucido: avete mai visto un borghese vestito meglio? Eppure, la mattina presto, ficcandosi tra le facce sporche della strada, esposto al freddo cane che montava dalle ultime case in fondo alla piana e dal dorso spelacchiato della miniera, involontariamente sottoposto ai desideri del nuovo giorno dopo aver lasciato alle spalle quelli della notte, egli potè approfondire forse meglio di altri la condizione umana.
Quando si svegliò, David F. pensò che quello era il sogno più stravagante e insolito che un uomo potesse mai fare.
Còiti 1.
L'harem
Oreste pensa: il padre di Boris aveva un harem. Non è mica un'idea tanto stupida. E quanto delizioso dividere la casa con una moglie come quella, come la soldatessa Ivanova, donna di buona tempra e dalle braccia ben tornite, capace di tirar su quello scimunito di Boris con l'amore che si riserva ai figli prediletti, ma anche di sopportare volentieri l'ufficio di amministrare l'harem del barin, del suo padrone. Il padre di Boris aveva istruito la cameriera nel modo che un amante predilige: e la ragazza, molto bella, sveglia, ostinata nella sua ignoranza ma niente affatto indolente e gentile d'animo, imparò in fretta. Dalla soldatessa Ivanova l'uomo ha avuto sette figli. Sei sono morti in tenera età. La cameriera entrò nelle grazie della signora come una figlia. Poi c'era la cuoca Natal'ja, una donna comune, di mezza età, coinvolta nel progetto suo malgrado solo in virtù della sua semplicità d'animo. Senza contare che anche il di lei padre, latifondista del Nagorki Karabak, aveva fondato un proprio harem, seguendo l'esempio dei suoi padri, e dei padri dei padri, e così via forse addirittura fino all'epoca di Pietro il Grande. Come poteva rinunciare a tanto onore? Il padre di Boris aveva cominciato la sua impresa per educare quelle povere donne, per combattere l'ignoranza ostinata e radicata, amava dire. La casa del barin era divisa in due: la parte maschile e la parte femminile. Il padre di Boris aveva stabilito che l'atrio di ingresso, a piano terra, fosse destinato a tutti: su un grazioso ottomano la soldatessa Ivanova ricamava o deliziava gli ospiti con la lettura del Bollettino Agrario, sul fondo una vecchia pianola meccanica faceva bella mostra accanto a una colonnina di marmo: la pianola era ormai recalcitrante a qualsiasi ipotesi di suono - sulla colonnina di marmo languivano sempre alcune piantine che di norma sopravvivevano solo pochi giorni prima di rinsecchirsi nella penombra. Sotto, su una sedia sgangherata, a Natal'ja era concesso di occupare un posto a sedere, di tanto in tanto. Quando il barin si coricava, alla sera, dopo avere recitato le preghiere di rito e avere fatto spegnere tutte le candele della casa, sussurrava un'arietta popolare alle sue donne, che dormivano di norma tutte accanto a lui, su dei materassi ricavati con le foglie secche delle pannocchie... Un harem!, ripete mentalmente Oreste. No, non è mica un'idea tanto stupida.
Còiti 2.
Le gioie del divanetto
- Il sospetto? Come fai a sapere cos’è un sospetto?
- Il mercato, mia cara. Dare e avere. Quando il saldo per un po’ di volte è in perfetta parità, lì comincia il sospetto.
Rosa Canuti aveva al collo una sciarpina rosa, non meno pretenziosa del piccolo foulard che faceva bella mostra dal taschino di Walter Mathias, commercialista, vecchio e stinto, (non troppo vecchio e non troppo stinto per non concedersi ancora di tanto in tanto – e quel giorno era appunto un tanto di quelli – il lusso di un amorino sdravaccato sul divanetto dei piaceri). Quello che non poteva sopportare era il profumo alla violetta, e disgraziatamente Rosa ne era imbevuta fino ai capelli, ma soprattutto che si dubitasse del suo rigore morale, dal momento che sapeva perfettamente quanto poco conto vi si potesse fare. Il suo ridicolo umorismo praghese: siccome da giovane era stato comunista, ora si dava pena di dimostrare a se stesso la sua capacità di rinunciare alle agiatezze, in realtà costretto da alcuni rovesci finanziari piuttosto maldestri, non senza preservarsi la possibilità di mantenere uno stile di vita più che decoroso, mitigato da un mediocre giro di amicizie, ma redento da quelle avventure femminili che era solito chiamare “beni rifugio relativamente indenni”. E che, se non proprio allietavano, almeno gli consentivano alla fine di lasciarle andare via (loro, le avventurette) con soddisfazione. Fumava per darsi un contegno. Portava sempre gli occhiali, ma ci vedeva benissimo: s’era convinto che la condizione di falsa infermità gli procurasse un vantaggio sul prossimo. Allevava serpenti – un simbolo fallico, ovvio. Sapeva bene che la sua fortuna si fondava sul suo cazzo.
Dalla strada arrivavano rumori che sembravano muggiti. Walter Mathias non stava bene, era già svenuto una volta tra le braccia di Rosa, però quella non s’era data pena, lui era rinvenuto subito e le cose filarono via lisce per un po’, ma sempre con sotto quei muggiti che gli confondevano la testa. Per esempio: era sicuro di stare amoreggiando con Rosa o non si trattava forse di qualcun’altra? D’altronde, per quel che importa un nome.
Il vecchio cucù battè le otto. Walter Mathias lo fracassò con l’ultimo bicchiere di Martini. Suo padre aveva fatto altrettanto, molti anni fa, un giorno che lui era piccolo, a Pils, poco prima di trasferirsi tutti al di qua del confine e battersela a gambe in tempo utile sulla Grande Tragedia che andava in scena da qualche parte nel mondo, ma il vecchio non aveva usato un bicchiere: allora era stata una fucilata a mandare affanculo la cigolante pendola rompicazzi. Tutto questo aveva sentito dire da suo padre, e aveva mandato a memoria la sequela bellissima di parolacce e bestemmie che ne seguì: una lunga, meravigliosa collezione di parole che filarono via dritte nell’aria come tanti vagoncini di un treno, dritti sparati al soffitto scrostato della casa di Pils, linda e decorosa, ma destinata a scomparire con tutto il resto dietro di loro, ben presto all’alba, come un sogno che ogni tanto ritorna e appesantisce la testa e poco altro. Amen.
Veramente suo padre aveva usato qualche altra parola più strana, in un dialetto contadino che gli era nelle orecchie quando abitava a Pils, ma ora non lo ricordava più. Come un mucchio di altre cose, d’altronde. Ricordava il suono, e il ritmo: ta-tatata-ta. Bè, non poteva dire se corrispondeva, ma quello aveva in testa.
- Tu non sai cos’è un sospetto?
- Sì. Credo di sì. Non so... Oh Walter, ma perchè ne parliamo?
Era più cretina di quanto si potesse supporre. Lui la odiava almeno tanto quanto provava gusto nel penetrarla - le poche volte che ancora ci riusciva, beninteso. Aveva la coda di paglia però. Non si mandano a monte due appuntamenti su quattro senza un buon motivo, e lei di buoni motivi ne aveva addirittura due: si chiamavano Olaf e Lale. Erano fratelli. I fratelli Gustavsson. Venivano dal Nord, com’è ovvio, ed erano separati da un anno di età, ma tanto simili da poterli quasi scambiare, come dei gemelli.
Due appuntamenti a vuoto su quattro rendevano pari il bilancio con Rosa: e un bilancio in pareggio è quanto di peggio ci possa capitare. La buona e saggia teoria economica suggeriva prudenza.
Còiti 3.
Introitus
Il rincrescimento è il sentimento generale degli uomini verso le donne, pensò il reverendo F., posizionandosi sull'inginocchiatoio. Lidia è nuda, si è coperta con le mani il ventre e ha detto soltanto ho freddo, che pensiero triste. Le parole le ha inventate davvero il diavolo. Però, però: in principio era il Verbo...
Il reverendo F. decise di mostrarsi riservato, sospettoso perfino. Da alcuni minuti la piccola folla sotto le finestre aveva cominciato a rumoreggiare paurosamente. Qualcuno aveva anche provato a scagliare dei sassi contro i vetri, con l'apparente intenzione non di fracassarli, ma forse solo di lanciare un avvertimento. Ma insomma, pur sempre si impone la presenza dell'autorità!, commentò a voce alta il reverendo F, che cominciava a spazientirsi. Questi poi sono infervorati dalla propaganda, si disse. Da settimane hanno fatto l'elenco di quelli che devono andare a prendere, casa per casa. Del resto, tutte le cose che nomini sono legate fra loro. La paura e la vigliaccheria e la magnifica dottrina nazionalista e il chiardiluna e la morte... Ne hanno presi sette, ieri sera. Temono che gli si rivoltino contro come biscie. Allora, per scongiurare la minaccia, li ammazzeranno. L'ombra di queste montagne è vagabonda, dipende da come gira il sole... Il reverendo F chiuse gli occhi e strinse i denti, perché le ginocchia ora gli dolevano, pigiate sul legno duro. Le campane suonarono prima le cinque, poi le cinque e mezza, poi le sei in punto. Un'ora fatta apposta, pensò, per chi è tornato a casa e gli piace starci.
Lidia si fece una rapida toeletta, sputò su una mano per lisciare i capelli, uscì dalla stanza, poi rientrò con addosso un accappatoio spelacchiato.
Erano state lunghe giornate tranquille. Di tutto il mese di agosto, appena passato, e anche delle settimane precedenti, il reverendo F. non ricordava nient'altro che questo: una bara trainata solennemente su un affusto di cannone - neanche si fosse trattato delle regina d'Inghilterra, e invece era quello scimunito dell'Ulisse, morto affogato nel canale di scolo dietro casa... Uno spirito mistico giaceva composto in rigida immobilità su un letto di porpora orobordato: bell'onore per un poveraccio. Requiescat!
Sì ecco che cosa fanno: aspettano che accada qualcosa!, pensò il reverendo F., alzandosi con grande sforzo dall'inginocchiatoio. Aveva le gambe ormai tutte rattrappite. Strascicò i piedi fino alla finestra. Senza farsi vedere scostò appena la tendina. Questi sono ladri di morti, pensò. Lidia gli si avvicinò da dietro, premendo la testa contro la sua. La vedi la casa sull'xxx? le chiese il reverendo F., indicando la collina di xxx. No, non la vedo. Il reverendo F. scosse la testa. Con l'indice guidò lo sguardo della donna sulla stradina che attraversava la parte alta del paese, lungo il muro di cinta del cimitero e poi a fianco del grigio casermone delle scuole medie, fino a una piccola macchia candida nel verdescuro del bosco. Ecco, esclamò il reverendo F., io sono nato lì.
Un richiamo stridulo fende l'aria: un grido di battaglia, forse, o al contrario di tregua? Lidia si ritrasse, turbata. Il reverendo F. le accarezzò il volto: riuscì solo però a darle un buffetto sulla guancia, come a un bambino monello o come quando si ungono i cresimandi. E' una gazza, che cosa credevi che fosse? sussurrò. Ma la voce incespicò a metà della frase. Il reverendo F. passò una manica della telara sulla bocca, ma così facendo gli restò sulle labbra un sapore schifoso di polvere e di sudore.
Ladri di morti!
Ladri di morti!
Ladri di morti!
Una gragnuola di sassi si fracassò sulla finestra. Allungando la testa il reverendo F poteva scorgere di sotto, piantato nel mezzo del cortile, una specie di marcantonio dalle braccia robuste e dalla faccia rugosa che raccoglieva manciate di pietre tonde da distribuire agli altri. A partire dal fondo del cortile c'era un viottolo nell'erba. Una riga bianca tortuosa che si perdeva nel bosco. Oltre il bosco c'era il monte xxx, una specie di Golgota liscio sprofondato nella nuvolaglia di fine estate. Il reverendo F. spalancò la finestra e gridò di sotto: Benedetti, benedetti! Una grossa pietra sibilò a poche centimetri dalla sua testa e andò a infrangersi sopra, sul muro, scheggiandosi in mille pezzi. Il reverendo F, paonazzo in volto, richiuse la finestra e si fece il segno della croce.
Adesso la penombra avvolse la stanza. Solo la luce debole di una lampada sul tavolo. Spegni la luce, sussurrò Lidia. Su, adesso spegnila. E taci. La donna parlava con il tono di voce che si usa per blandire un bambino. La camera era uno stanzone freddo, ampio e pieno di echi. Contro la parete di fondo erano accatastati tre materassi e una pila di coperte di lana grezza, di tipo militare. Oltre a quella stanza, la canonica si componeva di uno studiolo, di un cesso maleodorante e di un cucinotto. Una scala di legno portava al piano terra, dove si trovavano la rimessa, la legnaia e la cantina. Non ci sono altre vie d'accesso, calcolò il reverendo F. Tuttavia, non si può mai sapere.
I Kolpen
Intermittente, è la parola giusta per le onde dei miei ricordi. Tutti nella mia famiglia, tranne me, hanno sempre avuto il dono di una buona memoria. La più prodigiosa ce l’aveva nonna Ilse, che era una persona grassoccia e vestiva sempre in maniera sgargiante. Lei diceva che l’aveva ereditata dai suo avi: quando un popolo come quello hussita è costretto a fuggire sempre, raccontava, non può portarsi dietro molte cose, deve tenere tutto a memoria. By heart, dicono gli inglesi, perché è con il cuore che si ricorda. Era lei a raccontarci le storie che ci hanno nutrito da quando siamo al mondo: la stirpe benedetta di Jan Hus che sconfisse l’imperatore Sigismondo, i nostri progenitori che si schierarono con gli utraquisti, la loro vittoria nella battaglia di Mipany nel 1434. Verità storica e leggende, impastate, mescolate come la terra con l’acqua, ma che importava se alla fine comunque la costruzione teneva? Ci facevano sentire come se fossimo noi gli scampati alle terribili crociate papali. All’epoca eravamo bambini e non c’era motivo di dubitare di nonna Ilse. Lei era una vera Kolpen in tutto e per tutto. Gli piaceva ripetere che se da giovane aveva sofferto la fame doveva ringraziare il signor Stalin e Sua Eccellenza Winston Churchill, compreso il fatto che alla fine alla sua famiglia non avevano voluto rinnovare il contratto della casa e l’avevano sbattuta su una strada. Fu per questo che arrivarono a Xxx da Innsbruck, nel ’46, con la tradotta militare. Da da lì in poi si è convenuto che i Kolpen diventassero italiani, secondo nonna Ilse passando dalla padella alla brace. Così però almeno si chiudeva un cerchio e a quei mercanti veneziani che misero radici dalle parti del Danubio agli inizi del Quattrocento e in breve aderirono entusiasti allo strappo da Roma, ora finalmente sarebbe stato concesso, dopo aver girovagato per mezza Europa, di respirare nuovamente l’odore della casa paterna. Questi castelli in aria, nonna Ilse, era brava a costruirseli e costringeva tutti noi a crederci. Io non ho preso niente da lei. Solo se scrivo mi aiuto a memorizzare meglio: Lo zio Dmitri ha invitato ieri sera sua cognata a casa nostra per cena, ed era in imbarazzo. Oppure: San Venceslao fu fatto uccidere da suo fratello Boleslao il 28 settembre 935. Questo genere di appunti tengono allenata la mente. E’ un’attività confortante. Se ne possono ricavare indicazioni preziose.
Anche mio fratello Mark riusciva a ricordare qualsiasi cosa. Ma nel giro dei nostri parenti e del vicinato era famoso per le sue pantere. Si divertiva a correre dietro a quelle sciagurate bestiacce. Sembrava che le pantere avessero un debole per i rifiuti dei pasti stipati nel bidoncino marrone sotto il tinello. Ma in generale potevano essere ovunque.
I primi giorni d’autunno faceva sempre freddo, a Xxx. Poi sarebbero tornate le giornate più tiepide, prima dell’inverno vero e proprio. Ogni anno era sempre la stessa storia, almeno questo era quello che si diceva in giro. Intanto, i termosifoni andavano sfiatati e preparati alla bisogna. Questo era il compito della mamma: con una mano svitava la valvola e con l’altra reggeva una bacinella di plastica per raccogliere lo zampillo d’acqua marcia, che fuoriuscendo sfrigolava con lo stesso rumore che saliva dalla pompa di benzina sotto casa quando veniva azionato il getto di vapore caldo per lavare la carrozzeria dei tir. Il benzinaio, un brav’uomo che portava sempre lo stesso cappellino giallo con la scritta TAMOIL, ogni tanto dirigeva il getto per scherzo verso le ragazze che passavano. Era un bosniaco che aveva lasciato al suo paese moglie e figli. Qui s’era portato solo l’amante. Tko nece brata za brata, on ce tudjnca za gospodara, chi ripudia suo fratello finirà sotto lo stivale straniero, cantava in slavo con una certa autoironia.
Per amore
Hanno eretto una lapide nel mio giardino. Mentre ero chino sul tavolo, inondato dalla luce della lampada, e alcuni dannati pensieri occupavano le mie pagine, udii in lontananza vigorosi colpi di piccone. Mi alzai a vedere quello che stava succedendo: c'era veramente di che stupirsi!
- Ehi! gridai agli operai, indaffarati a dare una giusta collocazione al marmo. Siete davvero sfortunati: anche stamane il cielo è grigio e minaccia di piovere da un momento all'altro...
- Verificai le loro reazioni, poi riattaccai:
- Tuttavia, oggi è il giorno dell'amore e si sa che questo genere di cose (così dicendo, indicai la lapide con un cenno del capo) può disturbare la coscienza dei borghesi. Ah, non la mia: ma questo è un altro paio di maniche. Io sono uno dei peggiori borghesi della città. Chiedetelo in giro, ve lo potranno confermare. Ma sono anche uno scrittore, sapete: uno di quelli che si illude di essere a posto e invece un bel giorno, solo e spettinato davanti allo specchio, scopre che la sua coscienza se ne è andata con tutto il resto. Mi è rimasta la vita: non è poco, d'accordo! Ma se fossi un giocatore d'azzardo non punterei su di essa nemmeno una lira... Ah, ma scusate, vi sto importunando senza motivo.
Ripresi fiato, sporgendomi un altro po' dal davanzale della finestra. Gli operai nel frattempo avevano interrotto il lavoro ed ora, appoggiando i gomiti sui picconi, aspiravano boccate di fumo dalle sigarette e mi fissavano.
- In secondo luogo, ripresi allora con più foga, in secondo luogo signori vi trovate nel mio giardino ed è evidente che io non ho autorizzato nessuno a posare quella lapide!
Uno di loro, un uomo di bassa statura dal naso paonazzo, con uno sdrucito cappello calcato sulla fronte, fece un passo in avanti, gettando la sigaretta lontano. Disse che quella lapide era proprio un monumento all'amore, alla memoria del sentimento perduto della gente; che non c'era il rischio di turbare la coscienza di chicchessia e tantomeno dei borghesi, poichè proprio un borghese aveva ordinato la lapide; che infine avevano scelto il mio giardino perchè era il più bello e il più curato della zona. Erano certi, concluse, che la cosa non mi avrebbe disturbato affatto.
Stavo per rispondere in tono alquanto seccato e ordinare loro di sgomberare la pietra dal mio terreno. Invece, strizzai gli occhi, curioso di leggerne l'iscrizione. Siccome non ce la facevo, data la lontananza, pregai un operaio di farlo al posto mio.
L'operaio gridò:
- C'è scritto: PER AMORE!
- Ma cosa significa?
- Bè, se non lo sa lei... E ora ci scusi, ma dobbiamo terminare il lavoro.
Per amore, sì per amore! Non si muore forse per amore? Non è forse l'amore un modo piacevole e tragico di farla finita? Al pari della morte, non è forse dolcissimo abbandonarsi tra le sue braccia?
Per amore, dunque, così sia! In preda a grande eccitazione, tornai alla scrivania e strappai tutti i fogli.
Poi andai a lavarmi. Mentre mi asciugavo le mani, pensai che dovevo ancora telefonare alla mia ragazza per farle gli auguri, poichè quello era il giorno dell'amore.
La Mosca
Lei era bella, con il vestitonuda, in piedi sulla soglia della cucina. La stamberga dove abitava, in cima al monte, sembrava una vecchia abbazia in bello stile gotico. Glielo dissi, ma era chiaro che soltanto io la vedevo così. Mi disse che aveva dovuto riempire gli interstizi con lo sterco di vacca, la calcina non ce l'aveva. Il cielo era azzurro, l'aria calda montava a ondate sul prato senza erba, fitto però di arbusti piccoli e taglienti. Così le vacche morivano e anche le pecore erano sempre più magre. Quanti anni saranno passati, mia cara? Cinquanta, cinquantacinque. Quante vite sono? Quanti ardori, quanta vanitas?
Corpi restituiti dalle acque
Quando Mizia se ne andò di casa, lasciò solo scritto: Detesto gli addii. Sapeva che anche per lei era così: che tutte le volte che aveva vissuto qualcosa di speciale, avrebbe voluto viverlo con qualcun altro. E non era stato per quei sette anni di buio totale, che una banale caduta dalla scale gli aveva steso sulla sua memoria come una crosta di neve ghiacciata, se poi aveva deciso di congedarsi da se stesso, in un certo senso. La fuga – perchè di fuga si trattava ma era troppo disonesto per ammetterlo – Mizia l’aveva avuta in testa da sempre. Era la sua condizione privilegiata, quella del fuggitivo. O meglio: quella di chi fugge dalle proprie terre prima ancora di averle conquistate.
Jacky Caffrey, con Tommy Caffrey alle calcagna
Uno di quegli stupidi incidenti, per lieve distrazione, che rimangono impressi per sempre nella memoria di un bambino. Accadde al termine dell’estate in cui Jacky Caffrey aveva insegnato a suo fratello Tommy Caffrey perché nell’Africa equatoriale c’è una grande varietà di leoni. Un paio di giorni dopo mandarono al diavolo tutti quanti e si rintanarono nella baracca del vecchio bavoso Gundo-faccia-di-cavallo, giù alla ferrovia. Oh, le maledizioni che scagliarono al cielo al primo passaggio dell’accelerato 520 che sferragliò in un bagliore di polvere bianca! – E’ proprio un superficiale, mio fratello Tommy – meditò Jacky Caffrey. – Ed è davvero molto piccolo... – Così pensava, un po’ preoccupato di non vederselo spuntare al fianco, mentre lui invece se ne stava già seduto sul prato al di là del muretto di cinta dell’Orto Botanico, tra il gasometro e il fiume (dove, come dicono i vecchi, il cerimonioso mangiamorti ondeggia sopra la terra dell’antico incanto).
– Dài, Tommy, te li regalo quei maledettissimi pattini! – strillò nel vento. E il vento di rimando:
– ... maledettissimi!
E le cornacchie in coro:
– ... maledettissimi!
E le betulle insolenti:
– ... maledettissimi!
I muri della cucina luccicavano di zia Betty luccicavano e la credenza era al ancora al suo posto, come sempre, come ogni pomeriggio alle tre quando i bravi bambini si raccoglievano attorno al tavolo per ritagliare le figurine di carta. Grace si sedeva sul cesto portagiornali, era il suo privilegio. Ognuno deve avere un privilegio nella vita, così pensava zia Betty, per questo era una persona come si deve.
– Oggi ho solo tre uomini nella mia casa – cantilenò con l’aria corrucciata quel giorno. Il treno fischiò di nuovo. Dalla casa della zia Betty alla ferrovia era una volata, un tiro di sputo, un amen. Dal centro del fiume arrivava un lampo di luce, a tratti, perché il sole riverberava i ruoi raggi sull’acqua melmosa.
– Uno, due, tre. E il quarto ometto? Jacky, dov’è tuo fratello?
Nella ex Centrale Idroelettrica
«Il Boscimano si accorge dell'arrivo di qualcuno, da lontano, quando gli duole un punto del corpo che corrisponde alla sua cicatrice, quando sente, nella propria carne, la ferita dell'altro».
D. rilesse più volte quello che aveva appena annotato, verificando di aver copiato bene dalla rivista che stava aperta sul tavolo, accanto al Registro dell'Acqua. Poi, sulla stessa pagina del librone, scrisse ancora: 1 M. E 40 CM. / ACQUA MARRONE - DETRITI - PIOGGIA ALLA SORGENTE? / TEMPERATURA: NON RILEVATA.
Alla fine, dovette sospendere la trascrizione, perché una sigaretta quasi lo intossicava. Per un po' lottò accanitamente con il fumo, finchè si rassegnò ad alzarsi e a spalancare una finestra. Aspirò avidamente un paio di boccate. Il vento era freddo, il sole non riscaldava. «La gente se ne sta chiusa in casa - annotò D. mentalmente - solo di tanto in tanto si sente qualche vetro tintinnare: sono quelli che prendono una boccata d'aria. Ansimano tutti insieme, aprendo le finestre delle case, e i loro petti si riempiono d'aria e si svuotano nello stesso momento, in un ritmo regolare... Oh, ma finalmente è arrivato qualcuno sprezzante delle strade già battute!» Sulla sponda opposta del fiume, infatti, un vecchio dalla giubba marrone orlata di giallo e con gli zoccoli ai piedi stava cercando un varco nella rete. Aveva un'aria cenciosa. «E' arrivato col primo autobus del pomeriggio», calcolò D. Il vecchio fece il giro lungo per scendere di sotto, passò cioè oltre il cancelletto e la scala di pietra e si ficcò tra i cespugli, scivolando con il culo giù per l'argine di muschio. Poi si sedette, con la testa tra le mani, a un metro dall'acqua che zampillava tra le rocce e si spandeva in una semiluna erbosa.
D. ripeteva spesso: «Il fiume è il primo posto dove vanno gli assassini». Perciò, vi si dedicava senza passione, anzi con distacco, svolgendo il suo lavoro come se dovesse affrontare, ogni giorno, un'incombenza fastidiosa. A volte, temendo di non essere in grado di sopportare la vista di qualcuno, se ne stava rintanato nel gabbiotto del suo ufficio, nella ex Centrale Idroelettrica, dalla mattina a sera inoltrata. E veramente, l'interno dell'edificio era insignificante, ma così castamente silenzioso! Ogni giorno, entrando e uscendo, D. ne contemplava la spaziosità.
Il sogno più stravagante e insolito che un uomo possa mai fare
David F. comincia a sognare. Immagina di guardarsi allo specchio e di scoprire di avere una grossa fronte sporgente sopra uno sguardo cagnesco, una bocca digrignante e un collo tozzo da mastino: una specie di mostro, insomma, anche se non prova affatto spavento o terrore, tutt'al più un vago compiacimento per quella sua aria di completa insubordinazione. Poi la scena cambia. Ora egli sta guardando alternativamente i palmi delle sue mani e i piedi, penzolanti dal cassone di un camion, che segue a stento il percorso accidentato della strada sterrata, piena di buche, alla periferia di una città. La strada porta a un luogo, egli pensa, in cui probabilmente nascono le cose. xxx, che lo accompagna, ha calzoni sdruciti e un fazzoletto al collo. E’ stato un compagno di scuola, delle elementari forse. David F. non sa bene che cosa fare: questo è il destino, pensa, bisogna passarci in mezzo. E' xxx che ha saputo cogliere con lucidità la voce dell'Incantatore divino. Lui invece è divorato dall'ansia di raggiungere la Terra Promessa, e di far bene. Sul ciglio della strada, lungo i muri delle case, sta una fila interminabile di volti anonimi, ognuno raffigurante un aspetto della Misericordia divina. David F. ha paura di scorgere, tra gli altri, anche il suo volto. xxx lo guarda come si guarderebbe un deficiente: ma con amore, sfiorandolo appena con uno sguardo tranquillo. Poi lo scaraventa giù dal cassone del camion. David F. comincia a camminare, non lungo la strada, ma tagliando direttamente per i campi, lasciandosi sopravanzare dai fusti alti della vegetazione, verso un orizzonte che si tinge di indaco. Si avventura così fuori città, da solo, passando le ultime case, la periferia ora altissima contro il cielo ribollito ora bassissima sul dorso della terra nuda. Più avanti, c'è solo uno spazio che cambia a ogni occhiata e che egli sospetta sia lo spazio, semplicemente, della sua immaginazione. Qui la terra è fresca, opportunamente smossa, quindi fertile. Lampi su xxx e i campi attorno e la Palude. Il mondo è la storia e il cosmo è un tempo senza scansioni, un presente-assente che si manifesta nel guizzo di una falce di luna biancheggiante sulla Palude. Ma David F. adesso sa con certezza che non è solo David F., è anche xxx. Questo lo mette al riparo da ogni apprensione circa il suo futuro, benchè sappia benissimo che non ci si possa fidare della sorte, e allora sente una fitta stringergli il cuore. Prende una barchetta, solca la crosta melmosa della Palude che però si scioglie rapidamente sotto l'urto della prua, finchè scorge in lontananza un complesso termale, un lungo edificio basso, a due o tre piani appena, ma allungato appunto sulla terraferma. Accosta e scende. Quando raggiunge il padiglione centrale si ferma a respirare l'odore della macchia boschiva che vede in lontananza, scura nella luce bassa della notte, fitta di gaggie e sambuchi, pini marittimi, querce secolari. Dentro, nel Salone degli Specchi, c'è una specie di ricevimento. In realtà, nel grande locale non ci sono specchi, ma tende di raso rosso che coprono le pareti. David F. guarda con rassegnazione e schifo le facce anonime dei convitati. Crede che tutti si occupino, in un modo o nell'altro, del suo destino, benchè a tutti ignoto. Perciò saluta con deferenza e, portandosi una mano al petto, comincia a parlare. Accade così che, mntre tutti si fanno da parte, egli tenga la prima Orazione funebre della sua vita: Letterati! Scienziati! Uomini di fede! Politici! A qualcuno di voialtri sarà pur capitato di rendersi conto, col morire, di avere lasciato qualcosa di utile. Egli non fu mai nemmeno sfiorato da quello che si dice il perbenismo borghese. E tanta fiducia e una serenità complicità con il Bene lo hanno messo al riparo dal mondo. Perciò era stucchevolmente innocente. Vestiva in doppiopetto e scarpe tirate a lucido: avete mai visto un borghese vestito meglio? Eppure, la mattina presto, ficcandosi tra le facce sporche della strada, esposto al freddo cane che montava dalle ultime case in fondo alla piana e dal dorso spelacchiato della miniera, involontariamente sottoposto ai desideri del nuovo giorno dopo aver lasciato alle spalle quelli della notte, egli potè approfondire forse meglio di altri la condizione umana.
Quando si svegliò, David F. pensò che quello era il sogno più stravagante e insolito che un uomo potesse mai fare.
Còiti 1.
L'harem
Oreste pensa: il padre di Boris aveva un harem. Non è mica un'idea tanto stupida. E quanto delizioso dividere la casa con una moglie come quella, come la soldatessa Ivanova, donna di buona tempra e dalle braccia ben tornite, capace di tirar su quello scimunito di Boris con l'amore che si riserva ai figli prediletti, ma anche di sopportare volentieri l'ufficio di amministrare l'harem del barin, del suo padrone. Il padre di Boris aveva istruito la cameriera nel modo che un amante predilige: e la ragazza, molto bella, sveglia, ostinata nella sua ignoranza ma niente affatto indolente e gentile d'animo, imparò in fretta. Dalla soldatessa Ivanova l'uomo ha avuto sette figli. Sei sono morti in tenera età. La cameriera entrò nelle grazie della signora come una figlia. Poi c'era la cuoca Natal'ja, una donna comune, di mezza età, coinvolta nel progetto suo malgrado solo in virtù della sua semplicità d'animo. Senza contare che anche il di lei padre, latifondista del Nagorki Karabak, aveva fondato un proprio harem, seguendo l'esempio dei suoi padri, e dei padri dei padri, e così via forse addirittura fino all'epoca di Pietro il Grande. Come poteva rinunciare a tanto onore? Il padre di Boris aveva cominciato la sua impresa per educare quelle povere donne, per combattere l'ignoranza ostinata e radicata, amava dire. La casa del barin era divisa in due: la parte maschile e la parte femminile. Il padre di Boris aveva stabilito che l'atrio di ingresso, a piano terra, fosse destinato a tutti: su un grazioso ottomano la soldatessa Ivanova ricamava o deliziava gli ospiti con la lettura del Bollettino Agrario, sul fondo una vecchia pianola meccanica faceva bella mostra accanto a una colonnina di marmo: la pianola era ormai recalcitrante a qualsiasi ipotesi di suono - sulla colonnina di marmo languivano sempre alcune piantine che di norma sopravvivevano solo pochi giorni prima di rinsecchirsi nella penombra. Sotto, su una sedia sgangherata, a Natal'ja era concesso di occupare un posto a sedere, di tanto in tanto. Quando il barin si coricava, alla sera, dopo avere recitato le preghiere di rito e avere fatto spegnere tutte le candele della casa, sussurrava un'arietta popolare alle sue donne, che dormivano di norma tutte accanto a lui, su dei materassi ricavati con le foglie secche delle pannocchie... Un harem!, ripete mentalmente Oreste. No, non è mica un'idea tanto stupida.
Còiti 2.
Le gioie del divanetto
- Il sospetto? Come fai a sapere cos’è un sospetto?
- Il mercato, mia cara. Dare e avere. Quando il saldo per un po’ di volte è in perfetta parità, lì comincia il sospetto.
Rosa Canuti aveva al collo una sciarpina rosa, non meno pretenziosa del piccolo foulard che faceva bella mostra dal taschino di Walter Mathias, commercialista, vecchio e stinto, (non troppo vecchio e non troppo stinto per non concedersi ancora di tanto in tanto – e quel giorno era appunto un tanto di quelli – il lusso di un amorino sdravaccato sul divanetto dei piaceri). Quello che non poteva sopportare era il profumo alla violetta, e disgraziatamente Rosa ne era imbevuta fino ai capelli, ma soprattutto che si dubitasse del suo rigore morale, dal momento che sapeva perfettamente quanto poco conto vi si potesse fare. Il suo ridicolo umorismo praghese: siccome da giovane era stato comunista, ora si dava pena di dimostrare a se stesso la sua capacità di rinunciare alle agiatezze, in realtà costretto da alcuni rovesci finanziari piuttosto maldestri, non senza preservarsi la possibilità di mantenere uno stile di vita più che decoroso, mitigato da un mediocre giro di amicizie, ma redento da quelle avventure femminili che era solito chiamare “beni rifugio relativamente indenni”. E che, se non proprio allietavano, almeno gli consentivano alla fine di lasciarle andare via (loro, le avventurette) con soddisfazione. Fumava per darsi un contegno. Portava sempre gli occhiali, ma ci vedeva benissimo: s’era convinto che la condizione di falsa infermità gli procurasse un vantaggio sul prossimo. Allevava serpenti – un simbolo fallico, ovvio. Sapeva bene che la sua fortuna si fondava sul suo cazzo.
Dalla strada arrivavano rumori che sembravano muggiti. Walter Mathias non stava bene, era già svenuto una volta tra le braccia di Rosa, però quella non s’era data pena, lui era rinvenuto subito e le cose filarono via lisce per un po’, ma sempre con sotto quei muggiti che gli confondevano la testa. Per esempio: era sicuro di stare amoreggiando con Rosa o non si trattava forse di qualcun’altra? D’altronde, per quel che importa un nome.
Il vecchio cucù battè le otto. Walter Mathias lo fracassò con l’ultimo bicchiere di Martini. Suo padre aveva fatto altrettanto, molti anni fa, un giorno che lui era piccolo, a Pils, poco prima di trasferirsi tutti al di qua del confine e battersela a gambe in tempo utile sulla Grande Tragedia che andava in scena da qualche parte nel mondo, ma il vecchio non aveva usato un bicchiere: allora era stata una fucilata a mandare affanculo la cigolante pendola rompicazzi. Tutto questo aveva sentito dire da suo padre, e aveva mandato a memoria la sequela bellissima di parolacce e bestemmie che ne seguì: una lunga, meravigliosa collezione di parole che filarono via dritte nell’aria come tanti vagoncini di un treno, dritti sparati al soffitto scrostato della casa di Pils, linda e decorosa, ma destinata a scomparire con tutto il resto dietro di loro, ben presto all’alba, come un sogno che ogni tanto ritorna e appesantisce la testa e poco altro. Amen.
Veramente suo padre aveva usato qualche altra parola più strana, in un dialetto contadino che gli era nelle orecchie quando abitava a Pils, ma ora non lo ricordava più. Come un mucchio di altre cose, d’altronde. Ricordava il suono, e il ritmo: ta-tatata-ta. Bè, non poteva dire se corrispondeva, ma quello aveva in testa.
- Tu non sai cos’è un sospetto?
- Sì. Credo di sì. Non so... Oh Walter, ma perchè ne parliamo?
Era più cretina di quanto si potesse supporre. Lui la odiava almeno tanto quanto provava gusto nel penetrarla - le poche volte che ancora ci riusciva, beninteso. Aveva la coda di paglia però. Non si mandano a monte due appuntamenti su quattro senza un buon motivo, e lei di buoni motivi ne aveva addirittura due: si chiamavano Olaf e Lale. Erano fratelli. I fratelli Gustavsson. Venivano dal Nord, com’è ovvio, ed erano separati da un anno di età, ma tanto simili da poterli quasi scambiare, come dei gemelli.
Due appuntamenti a vuoto su quattro rendevano pari il bilancio con Rosa: e un bilancio in pareggio è quanto di peggio ci possa capitare. La buona e saggia teoria economica suggeriva prudenza.
Còiti 3.
Introitus
Il rincrescimento è il sentimento generale degli uomini verso le donne, pensò il reverendo F., posizionandosi sull'inginocchiatoio. Lidia è nuda, si è coperta con le mani il ventre e ha detto soltanto ho freddo, che pensiero triste. Le parole le ha inventate davvero il diavolo. Però, però: in principio era il Verbo...
Il reverendo F. decise di mostrarsi riservato, sospettoso perfino. Da alcuni minuti la piccola folla sotto le finestre aveva cominciato a rumoreggiare paurosamente. Qualcuno aveva anche provato a scagliare dei sassi contro i vetri, con l'apparente intenzione non di fracassarli, ma forse solo di lanciare un avvertimento. Ma insomma, pur sempre si impone la presenza dell'autorità!, commentò a voce alta il reverendo F, che cominciava a spazientirsi. Questi poi sono infervorati dalla propaganda, si disse. Da settimane hanno fatto l'elenco di quelli che devono andare a prendere, casa per casa. Del resto, tutte le cose che nomini sono legate fra loro. La paura e la vigliaccheria e la magnifica dottrina nazionalista e il chiardiluna e la morte... Ne hanno presi sette, ieri sera. Temono che gli si rivoltino contro come biscie. Allora, per scongiurare la minaccia, li ammazzeranno. L'ombra di queste montagne è vagabonda, dipende da come gira il sole... Il reverendo F chiuse gli occhi e strinse i denti, perché le ginocchia ora gli dolevano, pigiate sul legno duro. Le campane suonarono prima le cinque, poi le cinque e mezza, poi le sei in punto. Un'ora fatta apposta, pensò, per chi è tornato a casa e gli piace starci.
Lidia si fece una rapida toeletta, sputò su una mano per lisciare i capelli, uscì dalla stanza, poi rientrò con addosso un accappatoio spelacchiato.
Erano state lunghe giornate tranquille. Di tutto il mese di agosto, appena passato, e anche delle settimane precedenti, il reverendo F. non ricordava nient'altro che questo: una bara trainata solennemente su un affusto di cannone - neanche si fosse trattato delle regina d'Inghilterra, e invece era quello scimunito dell'Ulisse, morto affogato nel canale di scolo dietro casa... Uno spirito mistico giaceva composto in rigida immobilità su un letto di porpora orobordato: bell'onore per un poveraccio. Requiescat!
Sì ecco che cosa fanno: aspettano che accada qualcosa!, pensò il reverendo F., alzandosi con grande sforzo dall'inginocchiatoio. Aveva le gambe ormai tutte rattrappite. Strascicò i piedi fino alla finestra. Senza farsi vedere scostò appena la tendina. Questi sono ladri di morti, pensò. Lidia gli si avvicinò da dietro, premendo la testa contro la sua. La vedi la casa sull'xxx? le chiese il reverendo F., indicando la collina di xxx. No, non la vedo. Il reverendo F. scosse la testa. Con l'indice guidò lo sguardo della donna sulla stradina che attraversava la parte alta del paese, lungo il muro di cinta del cimitero e poi a fianco del grigio casermone delle scuole medie, fino a una piccola macchia candida nel verdescuro del bosco. Ecco, esclamò il reverendo F., io sono nato lì.
Un richiamo stridulo fende l'aria: un grido di battaglia, forse, o al contrario di tregua? Lidia si ritrasse, turbata. Il reverendo F. le accarezzò il volto: riuscì solo però a darle un buffetto sulla guancia, come a un bambino monello o come quando si ungono i cresimandi. E' una gazza, che cosa credevi che fosse? sussurrò. Ma la voce incespicò a metà della frase. Il reverendo F. passò una manica della telara sulla bocca, ma così facendo gli restò sulle labbra un sapore schifoso di polvere e di sudore.
Ladri di morti!
Ladri di morti!
Ladri di morti!
Una gragnuola di sassi si fracassò sulla finestra. Allungando la testa il reverendo F poteva scorgere di sotto, piantato nel mezzo del cortile, una specie di marcantonio dalle braccia robuste e dalla faccia rugosa che raccoglieva manciate di pietre tonde da distribuire agli altri. A partire dal fondo del cortile c'era un viottolo nell'erba. Una riga bianca tortuosa che si perdeva nel bosco. Oltre il bosco c'era il monte xxx, una specie di Golgota liscio sprofondato nella nuvolaglia di fine estate. Il reverendo F. spalancò la finestra e gridò di sotto: Benedetti, benedetti! Una grossa pietra sibilò a poche centimetri dalla sua testa e andò a infrangersi sopra, sul muro, scheggiandosi in mille pezzi. Il reverendo F, paonazzo in volto, richiuse la finestra e si fece il segno della croce.
Adesso la penombra avvolse la stanza. Solo la luce debole di una lampada sul tavolo. Spegni la luce, sussurrò Lidia. Su, adesso spegnila. E taci. La donna parlava con il tono di voce che si usa per blandire un bambino. La camera era uno stanzone freddo, ampio e pieno di echi. Contro la parete di fondo erano accatastati tre materassi e una pila di coperte di lana grezza, di tipo militare. Oltre a quella stanza, la canonica si componeva di uno studiolo, di un cesso maleodorante e di un cucinotto. Una scala di legno portava al piano terra, dove si trovavano la rimessa, la legnaia e la cantina. Non ci sono altre vie d'accesso, calcolò il reverendo F. Tuttavia, non si può mai sapere.
I Kolpen
Intermittente, è la parola giusta per le onde dei miei ricordi. Tutti nella mia famiglia, tranne me, hanno sempre avuto il dono di una buona memoria. La più prodigiosa ce l’aveva nonna Ilse, che era una persona grassoccia e vestiva sempre in maniera sgargiante. Lei diceva che l’aveva ereditata dai suo avi: quando un popolo come quello hussita è costretto a fuggire sempre, raccontava, non può portarsi dietro molte cose, deve tenere tutto a memoria. By heart, dicono gli inglesi, perché è con il cuore che si ricorda. Era lei a raccontarci le storie che ci hanno nutrito da quando siamo al mondo: la stirpe benedetta di Jan Hus che sconfisse l’imperatore Sigismondo, i nostri progenitori che si schierarono con gli utraquisti, la loro vittoria nella battaglia di Mipany nel 1434. Verità storica e leggende, impastate, mescolate come la terra con l’acqua, ma che importava se alla fine comunque la costruzione teneva? Ci facevano sentire come se fossimo noi gli scampati alle terribili crociate papali. All’epoca eravamo bambini e non c’era motivo di dubitare di nonna Ilse. Lei era una vera Kolpen in tutto e per tutto. Gli piaceva ripetere che se da giovane aveva sofferto la fame doveva ringraziare il signor Stalin e Sua Eccellenza Winston Churchill, compreso il fatto che alla fine alla sua famiglia non avevano voluto rinnovare il contratto della casa e l’avevano sbattuta su una strada. Fu per questo che arrivarono a Xxx da Innsbruck, nel ’46, con la tradotta militare. Da da lì in poi si è convenuto che i Kolpen diventassero italiani, secondo nonna Ilse passando dalla padella alla brace. Così però almeno si chiudeva un cerchio e a quei mercanti veneziani che misero radici dalle parti del Danubio agli inizi del Quattrocento e in breve aderirono entusiasti allo strappo da Roma, ora finalmente sarebbe stato concesso, dopo aver girovagato per mezza Europa, di respirare nuovamente l’odore della casa paterna. Questi castelli in aria, nonna Ilse, era brava a costruirseli e costringeva tutti noi a crederci. Io non ho preso niente da lei. Solo se scrivo mi aiuto a memorizzare meglio: Lo zio Dmitri ha invitato ieri sera sua cognata a casa nostra per cena, ed era in imbarazzo. Oppure: San Venceslao fu fatto uccidere da suo fratello Boleslao il 28 settembre 935. Questo genere di appunti tengono allenata la mente. E’ un’attività confortante. Se ne possono ricavare indicazioni preziose.
Anche mio fratello Mark riusciva a ricordare qualsiasi cosa. Ma nel giro dei nostri parenti e del vicinato era famoso per le sue pantere. Si divertiva a correre dietro a quelle sciagurate bestiacce. Sembrava che le pantere avessero un debole per i rifiuti dei pasti stipati nel bidoncino marrone sotto il tinello. Ma in generale potevano essere ovunque.
I primi giorni d’autunno faceva sempre freddo, a Xxx. Poi sarebbero tornate le giornate più tiepide, prima dell’inverno vero e proprio. Ogni anno era sempre la stessa storia, almeno questo era quello che si diceva in giro. Intanto, i termosifoni andavano sfiatati e preparati alla bisogna. Questo era il compito della mamma: con una mano svitava la valvola e con l’altra reggeva una bacinella di plastica per raccogliere lo zampillo d’acqua marcia, che fuoriuscendo sfrigolava con lo stesso rumore che saliva dalla pompa di benzina sotto casa quando veniva azionato il getto di vapore caldo per lavare la carrozzeria dei tir. Il benzinaio, un brav’uomo che portava sempre lo stesso cappellino giallo con la scritta TAMOIL, ogni tanto dirigeva il getto per scherzo verso le ragazze che passavano. Era un bosniaco che aveva lasciato al suo paese moglie e figli. Qui s’era portato solo l’amante. Tko nece brata za brata, on ce tudjnca za gospodara, chi ripudia suo fratello finirà sotto lo stivale straniero, cantava in slavo con una certa autoironia.
Per amore
Hanno eretto una lapide nel mio giardino. Mentre ero chino sul tavolo, inondato dalla luce della lampada, e alcuni dannati pensieri occupavano le mie pagine, udii in lontananza vigorosi colpi di piccone. Mi alzai a vedere quello che stava succedendo: c'era veramente di che stupirsi!
- Ehi! gridai agli operai, indaffarati a dare una giusta collocazione al marmo. Siete davvero sfortunati: anche stamane il cielo è grigio e minaccia di piovere da un momento all'altro...
- Verificai le loro reazioni, poi riattaccai:
- Tuttavia, oggi è il giorno dell'amore e si sa che questo genere di cose (così dicendo, indicai la lapide con un cenno del capo) può disturbare la coscienza dei borghesi. Ah, non la mia: ma questo è un altro paio di maniche. Io sono uno dei peggiori borghesi della città. Chiedetelo in giro, ve lo potranno confermare. Ma sono anche uno scrittore, sapete: uno di quelli che si illude di essere a posto e invece un bel giorno, solo e spettinato davanti allo specchio, scopre che la sua coscienza se ne è andata con tutto il resto. Mi è rimasta la vita: non è poco, d'accordo! Ma se fossi un giocatore d'azzardo non punterei su di essa nemmeno una lira... Ah, ma scusate, vi sto importunando senza motivo.
Ripresi fiato, sporgendomi un altro po' dal davanzale della finestra. Gli operai nel frattempo avevano interrotto il lavoro ed ora, appoggiando i gomiti sui picconi, aspiravano boccate di fumo dalle sigarette e mi fissavano.
- In secondo luogo, ripresi allora con più foga, in secondo luogo signori vi trovate nel mio giardino ed è evidente che io non ho autorizzato nessuno a posare quella lapide!
Uno di loro, un uomo di bassa statura dal naso paonazzo, con uno sdrucito cappello calcato sulla fronte, fece un passo in avanti, gettando la sigaretta lontano. Disse che quella lapide era proprio un monumento all'amore, alla memoria del sentimento perduto della gente; che non c'era il rischio di turbare la coscienza di chicchessia e tantomeno dei borghesi, poichè proprio un borghese aveva ordinato la lapide; che infine avevano scelto il mio giardino perchè era il più bello e il più curato della zona. Erano certi, concluse, che la cosa non mi avrebbe disturbato affatto.
Stavo per rispondere in tono alquanto seccato e ordinare loro di sgomberare la pietra dal mio terreno. Invece, strizzai gli occhi, curioso di leggerne l'iscrizione. Siccome non ce la facevo, data la lontananza, pregai un operaio di farlo al posto mio.
L'operaio gridò:
- C'è scritto: PER AMORE!
- Ma cosa significa?
- Bè, se non lo sa lei... E ora ci scusi, ma dobbiamo terminare il lavoro.
Per amore, sì per amore! Non si muore forse per amore? Non è forse l'amore un modo piacevole e tragico di farla finita? Al pari della morte, non è forse dolcissimo abbandonarsi tra le sue braccia?
Per amore, dunque, così sia! In preda a grande eccitazione, tornai alla scrivania e strappai tutti i fogli.
Poi andai a lavarmi. Mentre mi asciugavo le mani, pensai che dovevo ancora telefonare alla mia ragazza per farle gli auguri, poichè quello era il giorno dell'amore.