Koppel non fare il rospo
I.
ANCORA UN'ULTIMA VOLTA E POI:
ADDIO PORTE CHE SBATTONO, ADDIO!
Fuori gli sterratori non fanno altro che aumentare la polvere, dove nel silenzio, nel colore dorato e arancione dei Capannoni B e C, il lavoro più difficile, dicono, è di togliere le schifezze che si depositano all'esterno della Fabbrica, oppure dentro le buche fatte per contenere i fiori di ferro che restano dopo la colata, anche se poi, mano a mano che la colata si raffredda, diminuisce anche il puzzo dei cartoni pressati zuppi d'acqua e sul Reparto Produzione brilla la luce benigna dell'orologio al neon, mentre cominciano ad accendersi i fanali al quarzo ai quattro lati dell'Universo calcinoso, le ombre calano dai monti per poi nuovamente retrocedere e vicino alla ringhiera si allineano zingari e cani, fino all'entrata dei turnisti.
A Koppel è rimasto il boccone in gola quando ha visto quelli della Direzione scendere in processione attraverso il cortile impolverato, di venerdì sera!, e si è sforzato di modulare le parole perchè gli venisse una voce più bella quando ha domandato al Capo dell'ufficio tecnico se doveva apparecchiare per sei, giù in mensa. Un tavolato di legno grezzo con sopra un braccio della pressa meccanica di ferro abbronzato dentro il Capannone C, bè, non è il posto migliore per lasciarci la pelle, mi ci gioco le palle che adesso chiudono tutto, a Koppel è rimasto un boccone in gola o qualcosa del genere, perchè ha accompagnato dentro il terzetto con una smorfia di paura e di disgusto insieme, come se a un tratto avesse compreso qual era il senso di tutta la sua vita, certo è che quando è passato accanto alla vecchia pressa, una Wolkensteiner del '64, rilucente di sprazzi color verderame e turchese perfino, oliata di fresco, è stato l'unico a fissare con devota ammirazione il ferro brunito del braccio sghembo, catturato dal sole che colava dal finestrone - tutti gli altri hanno fatto il giro largo, forse per paura di sporcare le belle giacchette di grasso, lui no, Koppel è passato così vicino alla vecchia pressa da riempirsi i polmoni di quel bel puzzo d'olio e di ferro - poi, appoggiando una mano sul braccio sghembo, ha fatto scivolare per un istante le sue dita sulle leve di comando - per un istante soltanto - quasi carezzandole.
Il Micheli se ne sta coi morti, adesso: un pezzo d'uomo sulla cinquantina, a vederlo riverso sul bancone non si direbbe che sia rimasto sotto un pressa di trenta quintali, un marcantonio davvero, e pensare ch'era barbiere, sissignori: barbiere diplomato. Fuori, nel cortile, una fila di operai attende di poter entrare a dare un'occhiata. La loro ripugnanza nei confronti della morte è fuor di dubbio: ma a Koppel pare che quelli siano figli di una razza imbastardita, con le facce tipiche della gente venuta fuori da matrimoni tra consanguinei e scesa a valle con l'arroganza dei sempliciotti di paese, pare a Koppel insomma che costoro abbiano una certa dimestichezza con la morte. Ma poi, dato che nel frattempo sono usciti nuovamente alla luce i tre della Direzione e le loro giacchette chiare spiccano contro lo scuro ventre del Capannone, Koppel ritiene opportuno sistemarsi dietro di loro, con le mani nella tasca della tuta, sperando che si sbrighino a uscire. Non gli viene neanche in mente di accostarsi al tavolato della pressa, che promana un acre odore di sangue rappreso e di legno infradiciato, teme anzi il momento in cui porteranno fuori il corpo orrendamente straziato e lui dovrà girarsi per guardarlo, anche solo un istante, ma dovrà farlo perchè così faranno tutti, senza piangere nemmeno una lacrima per quello stupido sfaticato beone del Micheli - osservando il corteo con aria di cauta remissione al Fato, come le vacche al macello guardano sfilare i corpi di quelle che le hanno precedute nel comune destino di morte - uno sguardo fisso nel vuoto, uno sguardo ebete con la mano a riparo dal sole, percorsi da un fremito di sospetto e di paura, prima di rientrare nell'interno scuro e umido della Fabbrica, forse preoccupati all'idea di avere dimenticato qualcosa, un gesto di scherno con un amico, una parola di saluto al Caporeparto anziano, un segnale di commiato da quelli della Direzione.
Il Micheli era uno scialacquatore anche in piena miseria, dice qualcuno, vedendo passare il medico dell'azienda e due portantini in camice bianco. Il buio cuneo d'ombra sviluppato di sopra, a metà tra il tetto di lamiera ondulata del Capannone C e la sagoma nera della montagna, è percorso dai voli dei corvi che, forse per gioco, nel tentativo apparente di arrivare subito allo stremo delle forze, calano di sotto rapidamente, fin quasi a terra, per poi risollevarsi di colpo e lasciarsi portare lontano dalla brezza serale, oltre il fiume. Un tizio della Direzione si fa dire da Koppel dove dovranno mangiare quella sera. Ne ho abbastanza, proprio abbastanza! Un fremito lo scuote dalla testa ai piedi. Il tizio della Direzione gli sta davanti, quasi a ridosso. La sua nuca emana un forte odore di colonia da quattro soldi. Gli altri due nuovi venuti sono al fianco. La fila di operai ondeggia, mentre il terzetto mostra di avere terminato il proprio ufficio, indugiando ancora un istante sulla soglia del Capannone. Qualcuno apre e richiude la portiera di un'automobile, facendola sbattere con un frastuono insolito, che difatti rintrona tra le pareti metalliche dei fabbricati. L'aprire e chiudere delle porte rende bene l'idea di dominio, pensa Koppel: le portiere delle macchine vanno sbattute con forza, e così anche le grandi porte metalliche dei Capannoni che si chiudono trascinandole a tutta forza sui binari, finchè terminano la loro corsa contro l'infisso d'acciaio nero. E a volte succede che il rumore di tutte le porte che si richiudono copra perfino il respiro asmatico dei forni: perchè è così che vanno chiuse le porte delle automobili, dei capannoni e dei magazzini, pensa Koppel: sbattendole con forza. Ed è proprio dentro questo trascinare violento di portiere e di serrande che sta l'anima del mondo, conclude Koppel, la coscienziosità del lavoro sfruttato, forse perfino il mistero impenetrabile del dominio e della morte...
II.
UN BUON PRETESTO PER RITORNARE DOVE IL CASCAMORTO INSIDIA LA SORDA.
SIMULAZIONI E ALTRI DILETTI "A PARTE".
Neanche il diavolo lo fermerebbe. Quello di cento e passa chili tiene lo smilzo per la collottola. Porco giuda, c'ha la capa di ferro questo! Quattro-cinque volte la testa contro il cancello. Ecco da dove il rumore... Koppel attraversa il piazzale e si ferma prudentemente a qualche decina di metri dalla banda. Alla fine, il pestato viene mollato a terra: sulla fronte ha stampato un triangolo nero, come una specie di marchio. Il grassone e i suoi compari fuggono via verso una casa diroccata. Gentaglia, sarebbe meglio levarseli di torno prima che non... Tira un sasso! fa a tempo a gridare uno del gruppo. Quale sasso? fa un'altra voce, più acuta. Cretinetti, un sasso è un sasso! gli rispondono in coro, prima di sparire tutti nel ventre scuro dell'edificio. Un sasso fende l'aria e sibila sopra la testa di Koppel.
Il cancello sbatte ancora un paio di volte. Un foglio di giornale, sollevato dal vento, si incolla sulle sbarre. Koppel si china a raccoglierlo. Amor matris, legge. Che roba è? La Posta dei Lettori, forse. Scrive uno che si firma Scoraggiato.
Il ragazzo per terra sgrana gli occhi. Si porta una mano alla nuca sanguinante. Koppel lo aiuta a rialzarsi. Sei un turnista, tu? gli chiede il ragazzo. Ha una voce flebile, sottile, quasi femminile. Anche il suo corpo gracile, dalle spalle e dai fianchi stretti, sembra un corpo di donna. Solo le mani sono grosse e tozze, sporche di grasso nero e di sangue. Il ragazzo se le ficca nelle tasche dei pantaloni, per nasconderle. Sei un turnista, tu? ripete, avviandosi a passi lenti verso la ferrovia. Mi pare che t'ho visto in Fabbrica. Capannone C. Squadra meccanici... Cazzo, ce l'hai la lingua? Koppel annuisce col capo.
Da dietro il muro che cinge lo slargo polveroso, tra il fiume e la statale, arrivano a ondate rumori di spranghe metalliche percosse e le grida prolungate degli operai. A tratti, il rumore è un rombo indistinto, un cupo enorme gorgoglio. Da qualche parte avrà inizio, pensa Koppel. Giù nell'oscuro centro terrestre, sicuro. La fabbrica è solida e operosa, la sagoma scura si staglia contro il cielo che, dall'altra parte, è ancora chiaro. Da questa, invece, tra la ferrovia e il fiume, in una conca stretta contro il dorso della montagna, il tramonto arriva di colpo, precipitando ombre lunghe e fredde. Koppel pensa che il mondo del futuro dovrà assomigliare per forza a questo paesaggio breve e ferroso. E pensa anche che quell'ostensione continua di vecchie ciminiere abbattute, di recinti divelti, di carcasse di automobili e di case popolari scandisce la vita dei suoi abitanti con una passione sempre corrisposta.
Quando il ragazzo scompare dietro il passaggio a livello, Koppel guarda l'orologio: le sei. Da un'auto scendono tre giovani donne, vestite in modo molto vistoso. Anche il conducente dell'auto, un uomo grasso sui cinquant'anni, dalla lunga barba e dall'impermeabile nero, elegante, scende e segue le tre a breve distanza. La piccola comitiva attraversa la strada, procedendo a passo lento. Tutti e quattro tengono lo sguardo fisso davanti, nessuno parla. La ragazza che apre la fila, mentre cammina, fa oscillare davanti a sè la borsetta, con solennità, stringendone il cordone con tutte e due le mani, come si usa fare con il batacchio dell'incenso. Il suo nome è Caterina. Quella che la segue, invece, saltellando tra le pozzanghere nel timore di sporcarsi le belle scarpine nuove laccate di bianco, si chiama Annetta. Tutte e due rivolgono un saluto giulivo a Koppel, che ricambia con un cenno del capo. La terza ragazza, invece, è una nuova. Una mulatta, pare. Il tizio dalla barba la sculaccia in continuazione, mentre procedono lungo il marciapiede che costeggia il fiume, perchè non ne vuole sapere di camminare speditamente. Finchè, con un gemito, si accascia per terra, sporcandosi tutta di polvere. Ci vuole un bel po' per farla rialzare.
Il quartier generale di Caterina e Annetta è l'albergo in fondo al viale, davanti alla stazione delle corriere. Si chiama LA QUIETE. Nell'atrio dell'ingresso, tra due vasi di piante di plastica, c'è un vecchio pianoforte. Non lo suona più nessuno da anni: ma la prima volta che Koppel ci passò davanti, un paio di anni fa, scortato da una delle ragazze, vide Annetta che stava armeggiando sui tasti - la ragazza pareva perfino discretamente avvezza alle lusinghe di un fortepiano - così, dopo un lungo periodo di riposo, dal cuore dei legni uscì nuovamente una fila di note: incerte, asmatiche - ma note di musica vera...
Il panciuto protettore fa per andarsene. Dal canto suo, anche Koppel ritiene senz'altro auspicabile una sua uscita di scena. Le ragazze, nel frattempo, si sono sistemate ai loro posti, a qualche decina di metri una dall'altra, ciascuna nel pezzo di marciapiede compreso tra due dei giganteschi platani che ombreggiano sul viale. Si siedono compostamente su una panchina o su una cassetta di rifiuti. La striscia di terra grigia sotto di loro, i fusti imponenti dei platani ai lati e le fronde scure di sopra incorniciano ognuna, come in altrettanti quadri. Quando l'uomo dalla barba se n'è andato definitivamente, Koppel attraversa la strada, tagliando in obliquo verso la ragazza più distante, Annetta. Lei nel frattempo si sbraccia tutta, chiamandolo a gran voce: poi si toglie le scarpine bianche, già mezze inzaccherate di fango, e le sventola sopra la testa. Quando Koppel le è vicino, Annetta se lo stringe con foga, portando le mani con le scarpe dietro la sua testa e appioppandogli un gran bacio sulla fronte. Piano, piano, si lamenta Koppel. E' così che si comporta una puttana? Annetta scoppia in una risata. Eh, no protesta, il cuore ce l'ho al posto giusto io! E così dicendo, abbassa una spallina del vestito a scoprire un seno. Qualcuno, da una macchina che passa, lancia un urlo, che si perde lontano, nell'aria fredda della sera. Dimmi, era Chopin vero? domanda Koppel all'improvviso. Lei rimane lì a fissarlo, senza capire. Rimane ferma per qualche istante, con le scarpe in mano e una tetta di fuori, come se quella domanda improvvisa e inaspettata l'avesse fulminata. Sì, quella volta che ti sei messa al pianoforte, in albergo, due anni fa. Erano i Notturni di Chopin, vero? La ragazza annuisce, ancora senza capire granchè, chinandosi in avanti per rimettere le scarpe. Poi si risiede sul suo pezzo di scatolone marcio, pettinando lentamente con una mano la lunga chioma di capelli. Ha scordato di sistemare il vestito: così, carezzato dal vento, mezzo seno sbuca ancora dal lembo ripiegato dell'abito. Koppel esamina bene i dettagli, come davanti a un quadro. Annetta contro il cielo scuro: potrebbe intitolarsi così, pensa. Chiede qual è il suo cognome. Giglio, risponde lei, Annetta Giglio. Pura e immacolata come un giglio... Si mettono a ridere entrambi. Koppel però trova che un cognome del genere le si addica, specialmente adesso che lei, ridendo con la bocca aperta, mette in mostra una fila di denti tutti bianchi e regolari - tutti tranne uno, un incisivo scheggiato e annerito: così che l'attenzione di Koppel si concentra su quell'unica imperfezione della bocca dalle belle labbra rosse, forse un po' troppo grande, ma a suo modo perfetta, perfino virginale. Alla fine, la ragazza tira su la spallina del vestito. Il seno scivola dentro, aderendo subito al tessuto umido di sudore. Solo adesso Koppel ha modo di notare che, a sinistra, il vestito si affloscia contro il petto: dell'altro seno è rimasta solo un'impronta, un rigonfiamento innaturale. Nel sistemare l'abitino addosso, Annetta porta ambedue le due mani al petto, come in un gesto istintivo. Quando però le dita della mano sinistra stringono la coppa floscia, si ritraggono di scatto. Come se solo ora, per la prima volta, la ragazza si rendesse conto che... Koppel non riesce a distogliere lo sguardo da quella tetta mancante. Perchè non andiamo dalla Sorda? dice Annetta. La sua voce è una voce di supplica. O almeno così sembra a Koppel, che difatti decide di scuotersi da quell'imbarazzante fissità. Dalla Sorda? Non so... Che può rispondere? Ha sull'argomento un parere che non può esprimere: perché questa sera ha stabilito che non andrà al lavoro, in fabbrica, ma ha anche promesso a se stesso che non l'avrebbe confidato ad Annetta. Che ore sono? domanda. Le sei e mezzo risponde lei. Devo andare a lavorare. Koppel si sforza di scivolare velocemente sulle parole, ma finisce che la frase gli esce di bocca come strappata a forza da un muto deficiente. Non è vero! esclama Annetta, fingendo irritazione. E poi, rivolgendosi a Caterina, che se ne sta seduta contro il suo albero: Ehi, qui c'è uno che vuole fare il rospo. Vero che vuoi fare il rospo, Koppel? Quella curiosa perfidia non lo impressiona. Ciò che lo preoccupa, invece, è un tremore che adesso gli scuote la pancia e che sembra trasmettersi anche alle gambe, alle braccia, a tutto il suo corpo, un tremore come di febbre improvvisa. Caterina grida: Non fare il rospo, Koppel! E Annetta, di rimando: Koppel non fare il rospo, dài! E gli alberi, i magnifici e scuri platani del viale: Koppel non fare il rospo! E il fiume, di sotto, dall'acqua limacciosa per la pioggia, e tutti gli sporchi pidocchiosi abitatori della palude: Koppel non fare il rospo, Koppel non fare il rospo, Koppel non fare il rospo!
Sia come che sia, si ritrovano tutti quanti dalla Sorda. Nessuno sa con certezza perchè il baretto che sta dall'altra parte della ferrovia, all'angolo con la Società Ortofrutticola, si chiami così. Caterina, che cammina speditamente tenendo Koppel per un braccio, e Annetta, che scorta il giovane all'altro fianco, hanno pareri opposti. Secondo la prima, il locale è appartenuto evidentemente, in origine, a una donna sorda. Koppel concorda con lei che si tratta di una tesi ragionevole, ma il suo spirito rifugge per natura all'evidenza, quando questa si manifesta sotto le spoglie menzognere della semplicità. Perciò si dispone volentieri ad ascoltare il parere di Annetta. La quale, infatti, racconta che fino a non molti anni fa, nello stesso luogo dove ora sorge il caseggiato con il baretto, c'era un pozzo. Una volta, prima della guerra, gli abitanti delle case intorno vi attingevano l'acqua. Poi però, da un giorno all'altro, il pozzo venne chiuso: l'imboccatura fu sigillata con robuste assi di legno massiccio, inchiodate a dovere. Pare infatti che un bimbo vi fosse caduto dentro, annegando. Il povero piccino dovette però agonizzare per parecchie ore, probabilmente invocando aiuto. Perchè nessuno sentì le sue grida disperate? Una vecchia, che abitava in una piccola bicocca, proprio a due passi dal pozzo, avrebbe potuto udire i pur flebili richiami. Ma la vecchia era completamente sorda. Disse di non avere udito nient'altro che la voce del padreterno. Anche la bicocca venne rasa al suolo, e la vecchia internata in qualche manicomio. Poi venne costruita una casa tutta nuova, con una graziosa verandina di ferro battuto e di vetro molato. Al piano terra si ricavò il bar, che prese il nome appunto - e non poteva essere altrimenti, conclude Annetta, con voce grave - da quella tragica vicenda: ALLA SORDA.
Arrivederci, ritorno... Chi se ne sta indeciso sulla porta del bar? O si entra o si esce, qui. Procedere per vie legali! Annetta strattona Koppel, finchè riesce a liberarlo dalla presa dell'altro suo angelo custode. Perchè non vai a lavorare stasera? Le sta tanto vicino, adesso, che Koppel si sente invaso da lei e dal suo orrendo profumo da supermercato. Biascica una risposta tanto per dire. Non me la conti, Koppel! incalza lei. Ma il giovane ha promesso a se stesso che non gliel'avrebbe detto, il perchè. Figurarsi se adesso, per farle un piacere. A una puttana, poi... Trema, trema tutto per davvero: le gambe sono quelle che cedono per prime, in questi casi. Al Micheli non è mica bastato avere buone gambe - due sedani secchi, ma un fascio di nervi che all'occasione... - d'altra parte, quando sei steso sotto una pressa Wolkensteiner, nerobronzata, del '64, un coso grande quanto un'automobile ma cento volte più pesante, quando sei lì sotto e senti che le pompe idrauliche stanno per cedere, che ti frega di correre? Poi forse è solo un attimo che dura meno di un amen, quando senti lo schianto vuol dire che è troppo tardi e che è già venuto giù tutto e che tu sei lì sotto, più stirato di una lamina pressofusa, sei lì sotto ma anche da qualche altra parte - sicuro! - a goderti lo spettacolo.
Non ti sarai mica licenziato... Koppel fa segno di no con la testa. Ormai però Annetta ha il viso tutto imbronciato e si divincola via, correndo dentro il baretto. Apparendo sulla soglia, Koppel mostra a tutti la sua ridicola faccia spettinata. Sente le gote che avvampano. Dentro ci sono il Bombarda e il Piubelini. Quest'ultimo, un ometto dalla faccia stralunata, vestito di nero come un becchino, gli lancia un saluto, che consiste nel sollevare le folte sopracciglia strizzando gli occhietti acquosi, mentre la bocca prima si tende in un sorriso perfino esagerato, poi viene socchiusa per emettere un rumoroso sospiro, come se quei minimi movimenti del volto, quel rapido mutamento d'increspatura sul volto avessero comportato davvero per il poveretto un formidabile sforzo. Difatti, egli cava di tasca un fazzoletto e con quello si asciuga la fronte, togliendosi il cappello e accasciandosi su una sedia. Koppel indaga nella penombra fumosa: Annetta è seduta sulle gambe del Bombarda. Costui - un uomo sui cinquant'anni, con indosso una tuta blu da meccanico e in testa un cappelletto dalla visiera dove si legge, in giallo: TAMOIL - giocherella con le dita larghe e sporche di grasso sul collo della ragazza. Sopra di loro, attaccato alla parete c'è un ritratto. Per prima cosa, facendo il suo ingresso nel locale, Koppel si avvicina a quell'immagine. C'è scritto Eva Duarte, in caratteri neri e tondi sotto la foto di un volto femminile incorniciato dai capelli biondi, ordinatamente raccolti ai lati - un volto che sembra più vecchio dell'età effettiva della ragazza. Un filo di perline bianche affiora appena dal girocollo di un maglioncino di lana. Un'aria di nobile remissione al proprio destino, nel complesso: propria di coloro che sognano sempre in anticipo le evenienze della propria giornata, pensa Koppel. Annetta non ne vuole sapere di fare la pace. Capacissima di filarsela via con questo qui. Perchè si è arrabbiata? Koppel non credeva che il suo lavoro avesse tanta importanza per lei. Uno sporco lavoro da operaio, per giunta. Roba da non credere. Ora viene a dirmi di non fare lo stupido. No: com'è che ha detto? Koppel non fare il rospo, ha detto. Solo a nominarla, la fab-bri-ca, c'è da star male. Un rimescolìo nello stomaco. La fabbrica, chissà quand'è che hanno cominciato a chiamarla così. A noi non ci fanno mai sapere niente. I capireparto hanno libero accesso ai registri di tutti i nomi dei lavoratori? No, che non è vero. Fantasie, ecco. Ma certo qualche potere in più ce l'hanno. Loro insegnano i nomi: questa è la pressa, questa è la fornace, questo è un grumo di ferro. E alla sera chiudono le serrande delle baracche. Tutte insieme, alla stessa ora, da sempre. Le serrande bisogna chiuderle facendole scivolare nel loro binario finchè, al termine della corsa, incontrano il muro: sbàm! Sennò non si chiudono. Il rumore ci vuole, è la voce delle serrande. Tutte insieme, quando vengono chiuse, alla stessa identica ora di ogni sera, da sempre, le serrande dicono: sbàm!, ed è come se dicessero: qui comandiam noi, adesso si chiude e basta! Sbàm! Sbàm! Sbàm!
Il barista è un tizio dai baffi spioventi: sta appoggiato con tutti e due i gomiti sul bancone lucido. Un grido viene da fuori. Sembra un grido di bimbo, pensa Koppel. Si sente raggelare.
All'epoca del pozzo, ricorda.
La campanella del convento. Suona ch'è un piacere. Saranno le sette, le sette e un quarto, le sette e venti al massimo. Il turno C. Un buon pretesto per bere un goccio...
Un mazzo di chiavi di tipo vecchio, da antico maniero.
Un sonaglio di latta.
Una borsa di cuoio da medico.
Un pacchetto di sigarette Stuyvesant.
Entra un altro cliente. Il Bombarda lo indica con lieto disprezzo. Viene avviata una conversazione allo scopo di fare una prima conoscenza.
Altri due tizi, al bancone, talmente presi nella conversazione, che sembrano fare all'amore tra loro...
Con in più il bisogno di consolazione.
Fare l'amore: l'igienico bisogno!
(Koppel preferisce l'albergo).
Pare che all'inizio avessero preteso per me fino a mezzo milione di lire... L'allegria di Caterina, accerchiata adesso da quattro uomini, la fa sembrare una creatura insignificante: una che si accontenta di chiunque, insomma. Dei quattro uomini, solo uno ha già infilato la mano dentro l'ampia scollatura della donna. Il primo ha l'aria di un brav'uomo; il secondo di un ebete; il terzo di uno che, grazie ai suoi maneggi, sia riuscito a mettere da parte qualche soldo; il quarto, invece, procede diritto per la sua strada, avvinghiato al corpo di Caterina, così che la ragazza ha il suo bel daffare di tanto in tanto a ricomporre il vestito, a sistemare la gonnellina, ad aggiustare un ciuffo ribelle sulla gran testa. Quando alla fine riesce a divincolarsi, si butta tra le braccia di Koppel, con uno strillo: ahimè, ecco la quinta sventura! Koppel ride, imitato da tutti gli altri.
I sensi in allarme!
Che avete da ridere? Andate al diavolo...
Salvandosi con educazione da un rigurgito di coscienza: le sette e mezza, forse anche più tardi!
Ansie d'incinta: un'infantile mammella: meschino, io?
Ah, a proposito! La sorda... Con feroce puntiglio, Caterina non vede l'ora di riferirgli quanto ha saputo a riguardo dell'origine del nome del bar. La sorda è effettivamente la proprietaria del locale. Niente a che vedere con quella storia del pozzo e del bimbo annegato. Però è vero che da quelle parti, prima che fosse costruito il palazzo, c'era una specie di pozzo. In ogni caso, la sorda è una donna sui quarant'anni, sorella del tizio dietro il bancone. Saranno almeno vent'anni che i due tengono il baretto. Ma il bello è che nemmeno a lei è dedicato il nome del locale, bensì a un'altra sorda, la vera Sorda s'intende!, una lontana parente di quella attuale, l'originale proprietaria dell'intero stabile. Ed ecco che, mentre Caterina parla, seduta in braccio a Koppel, una donna fa capolino da un uscio laterale. La sorda! Caterina gli tira una gomitata nel ventre, tutta eccitata. Koppel indaga subito il volto della nuova venuta per cercare una traccia della sua invalidità: di solito, pensa, hanno lo sguardo un po' svagato... Invece, ben presto la sua attenzione è catturata dai bei lineamenti e dal portamento aggraziato ch'ella mette in mostra. La donna è proprio una bella donna, forse una delle più belle che Koppel abbia mai veduto. Placida e bella. Forse è questo il segno distintivo della sua menomazione, pensa Koppel: si muove senza fare rumore. Tra le sue mani oscilla una specie di lampada a olio, che la donna tiene per il lungo cordone, mentre bisbiglia qualcosa al fratello, dietro il bancone: e benchè dalla sua bocca esca soltanto un suono flebile, poco più di un soffio asmatico, l'uomo fa un cenno d'intesa e sparisce dietro a una tenda. Ritorna subito dopo, con l'aria afflitta, allargando le braccia, evidentemente senza aver trovato quel che cercava. Allora, la donna fa una cosa che Koppel non si sarebbe mai aspettato: avanza di qualche passo proprio verso di lui e gli mostra la lampada, indicando con un dito lo stoppino spento. Un fiammifero! Koppel capisce tutto e si mette a frugare come un ossesso nelle sue tasche. Caterina sorride, mentre la furia del giovane la scodella quasi in mezzo alla sala. Ride anche la sorda, mettendo in mostra una bocca ancora più perfetta di quella di Annetta, dalle labbra color violetto, capaci di schiudersi con tanta amabile dolcezza...
La Signora ha mal di cuore. Cammina con cautela, quando deve salire una scala lo fa con esasperante lentezza. Tuttavia, è capace di eccessi davvero imprevedibili: dà in escandescenza per un nonnulla, appena una delle ragazze rientra troppo presto o senza una compagnia lancia un grido al suo uomo, che dorme nella stanza al piano terreno dell'albergo, a fianco della portineria: sa benissimo che nemmeno una cannonata lo schioderebbe dal letto, ma tanto basta per far strillare di paura la sfaticata e a scatenare un bel putiferio nella misera hall della pensione. Perciò, Annetta non ha alcuna intenzione di star lì ad aspettare i porci comodi di quello sfaticato! Anche Caterina è d'accordo: lì dentro non si batte chiodo. Koppel! gridano allora all'unisono le due ragazze. Dài, Koppel, non fare il rospo! Ma niente: quello non si schioda dalla sua sedia. La sorda, che nel frattempo si è seduta di fronte a lui, lo guarda con aria accondiscendente. Il giovane parla e parla, sembra un fiume in piena, le sue parole lambiscono la fiammella della lampada, posata sul tavolo, in un soffio che cresce di intensità mano a mano che il suo racconto procede, e il tono della sua voce somiglia a quello di un penitente nel confessionale - un tono ora basso e contrito, ora eccitato. La sorda par quasi che possa comprendere ogni parola, nemmendo leggendo sulle labbra, ma semplicemente scrutando la faccia del giovane, che adesso si trova a non più di un palmo dalla sua. Annetta e Caterina osservano divertite la scena. Dieci a uno che è una puttana anche quella lì... fa la prima. Difatti, a un certo punto, tra Koppel e la sua bella dama cala un improvviso e imbarazzato silenzio: finchè lui, di nascosto, fa scivolare sul ripiano di metallo del tavolo un biglietto da cinquantamila lire. Per niente imbarazzata, invece, lei prende il denaro, lo rigira tra le mani osservandolo in controluce alla fiamma della lampada, poi ne fa un pacchettino che infila nel reggiseno. Allora, i due si alzano. La sorda prende la lampada e scompare dietro la porta da cui era entrata: Koppel la segue dopo pochi istanti.
La banderuola sul tetto non si vede più. Il cielo è nero nero, sussurra Annetta alla compagna, tastando nell'oscurità del giardinetto, dietro il bar. Finchè, situandosi a gambe larghe per non cadere nel bel mezzo di un piccolo orto devastato dai gatti e dal vento, le due trovano la giusta posizione per osservare indisturbate la scena. A pochi metri di distanza, al di là del recinto scalcagnato dell'orto, inginocchiato su uno scatolone di cartone tutto sfasciato, con su scritto a lettere enormi FRAGILISSIMO, appena illuminato da un riverbero di luce che filtra dalla finestra del locale, Koppel sta armeggiando con la gonna della sorda, la quale però, in piedi e girata di spalle, non ne vuole proprio sapere di cominciare da quella posizione. Però la sua voce è poco più di un rantolo, sopraffatto dal rumore delle auto sulla strada o dalle grida che, a scrosci improvvisi, escono dal bar. A Caterina verrebbe da ridere, ma Annetta le mette una mano sulla bocca per soffocare i singulti. Che ti dicevo? E' proprio un rospo, sussurra piano piano al suo orecchio. Poi zittisce, perchè Koppel ha urlato qualcosa. In effetti, il giovane sembra spazientirsi. Sbuffa e ansima, senza venire a capo della cerniera-lampo della gonna, anche perchè la sorda ondeggia il suo grande e rotondo sedere davanti alla sua faccia e non capisce che deve stare ferma, accidenti!, e invece eccola qui che si muove tutta e parla, ma la voce le si ingorga nella gola e Koppel non capisce un fico secco. Allora, egli si alza in piedi, quasi inciampando nel cartone fradicio, e con un gesto risoluto piega in avanti il corpo della donna. Peggio ancora: quella si rialza dritta, come animata da una molla, piagnucolando. Koppel grida qualcos'altro, in tono ancora più alto, stavolta senza curarsi che qualcuno lo possa sentire, tutto rosso in faccia, finchè un colpo di tosse quasi non lo fa soffocare. La sorda, intanto, si sdraia in terra, appoggiando la testa sul cordolo di cemento che separa il vialetto dall'orto, senza smetterla di frignare. Koppel, in piedi sopra di lei, la guarda con rassegnazione, stanco, spossato, febbricitante. Una leggera brezza solleva un lembo del cartone, sotto i suoi piedi. Tra qualche minuto passerà, pensa. Dura poco, questo vento... La testa di lei è immobile sul cordolo di cemento slabbrato. Piano piano, la sorda comincia a spogliarsi, contorcendosi come una biscia per sfilare la camicia e la gonna. Anche le calze di nylon vengono gettate lontano con un colpo di coda finale. Il suo corpo, contro la terra nera, è bianchissimo. Koppel cade in ginocchio, come sopraffatto da una vertigine, risucchiato tra le braccia di lei protese, e si accascia del tutto in avanti, finendo riverso sopra la donna, che l'accoglie con un gemito. Così, in quella posizione, si lascia fare tutto senza reagire, anch'egli senza più un filo di voce, socchiudendo gli occhi, ficcando la faccia tra i capelli sciolti della donna, leggermente stordito dal suo profumo, soggiacendo alle sue ansie amorose, peraltro ricavando un certo beneficio dalle movenze sapienti della sorda, rallegrandosi della propria capacità di industriarsi perfino in quella scomoda posizione, senza più un tremito nè un rimorso. Niente male per un rospo scimunito, pensa. Niente male...
III.
TUTTO UN DESIDERIO
...tutto un desiderio - quell'alta creatura di tenere membra! - che riempie esattamente lo spazio vuoto tra il buio che cincischia e la lunga milizia dei topi di fogna, a un'ansa dell'Adige...
IV.
L'INCOMBENZA DI PIUBELINI E QUELLA DEL CAPO SETTORE.
LI-CEN-ZIA-TO! LI-CEN-ZIA-TO!
Come dice? fa Koppel, per la seconda volta. L'aria nella legnaia è irrespirabile. Oltre tutto, Koppel ha indosso un bel paio di pantaloni lavati di fresco e, per non macchiarli, è costretto a stare immobile. Gli pare assurdo poi che Piubelini gli parli sventolando sotto il suo naso la fonda di un'accetta. Nel silenzio sonnolento buio la scintilla lama porge un distinto cavo balugine. L'arte di essere stupido, pensa Koppel. Non è poi così cattivo come sembra. E che importa: spacca la legna per conto della mamma. Il sudor della schiena. Con indosso un grembiule da mattatoio municipale. E' morto per cause naturali, ripete Piubelini, un po' a fatica, come se ormai non gli riuscisse più di pescare le parole giuste nel suo povero cervello di demente. Oh, seriamente. M'incombeva un gravissimo dovere: sono stato a un funerale.
[S'era ripromesso di scrivergli, al Cesare, magari di inviargli un breve telegramma. Poi però Piubelini era giunto alla conclusione che la morte del povero Enrico, il primogenito del suo migliore amico, meritava bene che lui facesse lo sforzo di presenziare alla cerimonia funebre. Andandoci, al cimitero, aveva annusato a pieni polmoni la bella aria frizzante piena dell'odore dei cipressi, le cui chiome verdiscure allungate verso il cielo ornano il vialetto d'ingresso. Mai stato al cimitero prima d'allora. Non che gli facesse orrore: semplicemente, non aveva mai avuto motivo d'andarci. La madre era morta quando lui era piccolo piccolo. Quanto al padre, non ce l'aveva. Piubelini è uno di quei pochi uomini al mondo che sono nati solo da un madre e basta. Ecco, se proprio vogliamo metterci lo zampino di qualcuno, diciamo che al momento giusto sia intervenuto un angelo, uno spirito buono o il padreterno in persona. Ogni tanto, in qualche angolo del mondo, di persone così ne nascono: figli per parte di madre, sangue femminile al cento per cento: quasi una costola, una derivazione diretta della donna che li ha partoriti.
Poi erano venuti gli anni del collegio, la guerra, i primi lavori in bottega da falegname. Intorno a lui, la gente moriva, moriva a decine, prima: poi a centinaia e centinaia: una strage continua al suo paese, a Trento, nel mondo. Centinaia, e migliaia di funerali dappertutto. Piubelini sapeva che, ogni tanto, quasi a intervalli regolari, la vocetta noiosa della campanella del cimitero annunciava intorno che un'altra spoglia di morto cadaverico stava avviandosi all'ultimo viaggio. Un'altra creatura che un tempo fu piena di vita e senza riguardi verso la morte ha una certa premura di andarsene! Ebbene, siccome Piubelini non ha alcun parente riconosciuto, e solo due o tre amici, tutti viventi, al cimitero non c'è mai stato. Per un bel po' di anni, quand'era giovane, non sapeva nemmeno che esistessero, i cimiteri. Accadeva che, quando la gente moriva, semplicemente si togliesse di mezzo. Dove andava a finire? Scompariva. Una gran bella cosa, tutto sommato.
Finché, un giorno, passeggiando per un grande viale alberato, Piubelini non vide una lapide ai piedi di un ippocastano. Era un pezzo di marmo quadrato, ormai nero di fuliggine: sopra c'erano la piccola fotografia di un faccino di bimbo sorridente e una scritta, incisa e colorata di nero: DA MORTE RAPITO / IN SUBITANEA OMBRA GETTATO / ALLA DIVINA LUCE AVVIATO / RICORDIAMOTI / INCESSANTEMENTE. Quella scoperta turbò molto Piubelini. Nei giorni seguenti, quella frase gli tornò alla mente in continuazione. Che cosa significava INCESSANTEMENTE? Perchè era morto il piccolo e florido Nino (così era scritto sotto la fotografia)? In ogni caso, Piubelini giunse a una conclusione: che era dunque lì che finivano tutti quanti, dopo morti: sotto gli alberi.]
Non ne vorrei proprio sapere di quelle cose, sa. Così dicendo, la madre di Koppel si alza a fatica dalla sedia scricchiolante accanto al fornello e abbassa l'audio del televisore. Il Capo Settore Rolando Firmiàn guarda ancora per un po' le gambe di una ballerina di flamenco, seguendo la traccia della musica che sembra ancora rimanere nell'aria. Poi ingurgita d'un fiato il mezzo bicchierino di cherry che lo attende sul tavolo, suscitando un risolino di approvazione da parte dell'anziana donna. Notando il colletto ben stirato della sua camicia, la vecchia pensa a come dev'essere brava e consenziente la moglie del signor Capo Settore Firmiàn, mica come quelle sciocche servette dell'Assistenza sociale del Comune!
Koppel non sa se sedersi in mezzo ai due o se mettersi sulla panca a fianco della porta di ingresso. Decide di rimanere lì in piedi. Quando è apparso sulla soglia, scortato dalla faccia sudata di Piubelini, che portava sulle braccia incrociate una catasta di legna, sua madre lo ha guardato con autentica sorpresa, schioccando la lingua per la contentezza come se non si aspettasse minimante di vederlo tornare dalla legnaia - allo stesso modo in cui a teatro si attende con trepidazione l'entrata in scena del prim'attore, conoscendo perfettamente il momento in cui egli farà capolino da dietro le quinte ma nel contempo rimanendo davvero sorpresi quando questo accade. Signore e signori, il rospo... Un inchino, uno sberleffo e, oplà!... Sua madre ha schioccato la lingua e battuto le mani per la contentezza. L'anziana donna indossa sciattamente una camiciola verde, troppo leggera per la stagione. Riguardo al Capo Settore, è evidente che gli è sinceramente affezionata. Tuo zio Jacopo, un bel dritto! fa a Koppel, che nel frattempo ha deciso di andare a sedersi sulla panca. Al bar tranquillo. Tutto il giorno a bere... Ridacchia un po', poi si rivolge all'ospite: Lo cercavamo da ieri, sa. Dato per morto. Sicuro. E invece...
Koppel è seriamente preoccupato. Da tre giorni non va più al lavoro. Si alza come sempre, al mattino, infila la sua tuta nera e riceve dalla madre il sacchetto con il panino per il pranzo, ma poi invece di dirigersi verso la Fabbrica se ne va a spasso lungo l'Adige, fino alla sera, camminando per ore e ore, finchè le gambe gli diventano molli e la testa si riempie di umidità. Ha sperato di farla franca, che nessuno lo venisse a sapere. C'è tanta gente, in Fabbrica. Mica hanno tempo per star dietro a tutti...
Il Capo Settore tiene le mani pallide grassocce ben distese sul tavolo. Socchiude gli occhi assumendo un'espressione indefinibile. Di umana comprensione, si potrebbe dire. Ma il suo silenzio pare a Koppel un chiaro segnale: va' via cretinetti, finché sei in tempo! T'abbiam scoperto: vuoi forse far venire un accidenti a questa povera donna? Scappa scappa... Così, quando la madre gli chiede se ha saputo da Piubelini del funerale del figlio del Cesare, annuisce distrattamente, con gesto meccanico del capo. Anche perché, adesso, il Capo Settore Firmiàn lo scruta come se si aspettasse che lui dica qualcosa. Ecco, pensa Koppel, adesso mi domanderà perchè non sono andato a lavorare negli ultimi tre giorni. Magari è venuto per darmi il benservito. Cos'è quella lettera che ha sulle ginocchia? Una lettera di licenziamento, ovvio. Adesso si alza in piedi e la legge. E la leggerà così forte che le parole resteranno ancora per un pezzo, qui dentro. Li-cen-zia-to! Li-cen-zia-to! Li-cen-zia-to!...
V.
LA SPARIZIONE DELLE ULTIME TRE STELLE.
Il signor Maltus batte la figlia con la cinghia del cinturone. E' incapace d'amore. Quella donnetta che lì davanti, in fila alla cassa, si vanta di saperne una più del diavolo, a Koppel pare proprio una mariavergine scatenata. L'aiuta la compassione per il suo prossimo - un disarmo del cuore, un sospiroso umore: la figlia di Maltus, poverina... Certo che, infagottato nel camice bianco lurido, gli occhietti da topo di fogna striminziti dietro le spesse lenti, impettito tra una montagna di buste di minestrone in polvere e le salamelle, i brusti, i favolosi decotti di Mamma Thèrese - a vederlo così, il signor Maltus, non lo si direbbe proprio capace delle più tremende nefandezze, una specie di orco che bastona la figlia e ingurgita bicchieroni di latte tiepido (crede che sia una cura contro l'ulcera). Così come, malgrado la passione che sembra metterci, neppure un cretino scambierebbe quell'uomo per un bottegaio: anzi, proprio il contrario. Con cura estrema, quest'uomo fissa le persone che sfilano davanti alla cassa: con la stessa attenzione scientifica, diciamo così, di un entomologo che scruti il lento dischiudersi delle ali di una farfalla, egli segue i movimenti delle donnette ciarliere che depongono i soldi nel vassoietto di metallo e poi, con la stessa mano - mentre con l'altra raccattano la merce sul bancone - prelevano il resto, una manciata di monetine sonanti, come se attingessero a un'acquasantiera! Così, con la medesima attenzione, il signor Maltus osserva ogni cosa: le monete che danzano sul metallo, la mano che le raccatta, le nuche delle donne che si allontanano. I suoi occhi perforano la triste semioscurità del negozio: egli non è un bottegaio, pensa Koppel, ma un Controllore.
Quando è il suo turno, alla cassa del negozio, il giovane depone le tre bottiglie di vino rosso buono sul bancone con la massima sollecitudine, senza nemmeno alzare lo sguardo, temendo di incocciare in quello del Controllore, che tutto sa e tutto vede.
La prima cosa che vorrebbe fare, adesso, è di trasvolare l'Oceano. L'idea gli viene da una stampa che è appesa sul muro dietro la cassa: la fotografia sbiadita di un mare in tempesta, con le onde che avanzano una cresta bianchissima contro gli scogli, mentre si diffonde su tutta la scena una luce gialla che sa di distruzioni e di morti per annegamento. Un particolare lo incuriosisce: in un angolo di cielo, in alto a destra, già scuro e pronto per la notte, c'è una fila di stelle. O meglio, c'era una fila di stelle: perché qualcuno s'è preso la briga di cancellare le ultime tre con un pennarello nero. Resta una traccia appena visibile sotto lo scarabocchio...
Una notte di molti anni fa.
Ammirando il cielo tranquillo verso di lui. Cercando di adescare un bullone rotolato fuori dal finestrone della Baracca.
La mazzata in testa del responsabile della Vigilanza: una testa di cavolo in meno è buonaroba, disse.
Amen.
Mica lo sapeva che non si poteva sporgersi dal finestrone.
La sparizione delle ultime tre stelle... Il cielo nero, di notte, è abbondante e non dura. Perché? Troppa bellezza viene a noia.
Il vino è per sua madre? Oh, ma allora doveva prendere le bottiglie di quell'altra marca, vede, quelle con l'etichetta rossa, dietro i pelati... La voce del Controllore ha lo stesso suono del metallo pressofuso quando si contorce sul pavimento della Fabbrica. E anche le patate, no no, non vanno mica bene. Ci vogliono quelle vecchie, sa: quelle che fanno gli occhi, ha capito? Il dito dell'uomo indica una fiorescenza, una specie di germoglio rotondo, sul dorso di una patata che ha pescato da una grossa cesta alle sue spalle. Come queste, vede? Altrimenti poi sua madre se la prende con me, oh sì sì...
La mamma ha capito che non è il caso di lasciarsi andare a isterismi e pianti greci. Ha fatto la sua parte di madre tradita: ha storto la bocca, cacciato un urlo, menato un gran fendente sulla testa del figlio con un mestolo di legno. Però il bersaglio non l'ha centrato. Poi si è fatta consigliare, come sempre, dal dottor Riposo e dal signor Chevuoichesia. Si è alzata dalla sua sedia e se ne è andata a dormire, così, senza dire altro, lasciando nella cucina da solo il Capo Settore Firmiàn. Anche Koppel si è ritirato in buon ordine nella sua stanza. Sono passati due o tre minuti di silenzio totale, durante i quali Koppel ha trattenuto il respiro, con i pugni sulla bocca, in piedi davanti al suo letto, come temendo da un momento all'altro che scoppiasse una bomba: poi, dalla cucina, si è sentita di nuovo la vocetta stridula di Piubelini, di ritorno dall'ennesimo viaggio nella legnaia. E' toccato a lui accompagnare l'ospite fin sulla porta, e richiudere bene la serratura, a doppia mandata. C'è anche il povero Ezio, laggiù... ha detto poi, con il tono di chi riferisce un grave annuncio. Chi, Ezio lo storto? ha risposto la madre di Koppel, tirando su di naso rumorosamente. Sì, lui. C'hanno fatto una lapide al risparmio. Davvero. Dio, che musica. Orco! sentita da ragazzo. Com'è che lo chiamano?
Funerale, Piubelini. E' un funerale.
VI.
PERSEFONE IL CANE, DETTO BIZET.
GLI INSEGNAMENTI DI.
Changez les dames!... Il povero cane, accasciato per terra, vede solo punti neri davanti agli occhi. Idrofobo, pare. Il negozio del signor Maltus è pieno di ogni roba che ognuno può desiderare, a patto che se la possa permettere: carne di vitello e di cinghiale, i deliziosi cavoletti di Bruxelles, gli asparagi verdi di montagna, il caffè d'Arabia tostato a mano, le bustine del the di Cylon e la cioccolata svizzera. A fianco del negozio, si illuminano le luci dentro le sale del capannone del Dopolavoro Ferroviario. Ad eccezione dei bimbi che sgambettano fuori, trattenuti dai padri, ognuno è libero di fare quello che vuole: giocare a bocce, a carte, passare anche l'intera serata davanti al bancone del bar. Il cane lancia un'occhiata triste e dice: per quanto mi riguarda, io non farò mai più in vita mia una cosa simile. E ripete, come se non fosse lì, in quel momento, ma altrove: changez les dames!...
Una stradina costeggia la casa, ma non è importante. Eppure a Koppel dispiace di non poter più fare il giro largo, attorno al piazzale dei Salesiani, a causa di un improvviso blocco della strada per lavori: così non potrà godere, quella sera e chissà quante altre, degli ottimi servigi di un fringuello canterino che, di sottecchi, ogni volta che lo vede passare di sotto, dalla sua bella gabbietta sul davanzale del secondo piano lo rinfranca con una manciata di fischi allegri.
Il cane s'informa: fringuello? quale fringuello? Già che c'è, Koppel presta ascolto alla sua voce rognosa. Chinati con le ginocchia in avanti! Lentamente, Koppel ubbidisce. E adesso parlami un po' di questo fringuello...
Dalla bottega esce una tipa con una scatola di cioccolatini sotto braccio: sulla scatola, ben incartata e infiocchettata, si legge in trasparenza: DOLCEZZE DEL PECCATO. Segue una marca, scritta però in caratteri troppo piccoli. Adesso incontro di sicuro qualche conoscente, pensa Koppel, che si vergogna un po' a farsi vedere mentre se ne sta lì, sul ciglio di una strada, inginocchiato davanti a un povero cane malato. Taratatarata... E poi con lui non si sa come finire la conversazione, pensa. Taratataratarara fa nuovamente il cane, come per richiamare l'attenzione, soffiando la voce ringhiosa tra i denti. Non c'è nessuno, dài! dice poi, come se gli avesse letto nel pensiero. Solo il vecchio Maltus, che è ubriaco fradicio...
Una luce tra gli oleandri. E' tardi, pensa Koppel.
Il cane (abbaiando): bau bau bau.
Koppel: da tre giorni non vado più a lavorare (con sollievo). Perchè? Hanno ammazzato uno, giù in fabbrica. Cioè, no, non è vero: è morto da solo, sotto una pressa. Sul serio, schiacciato. Ma poi non è vero che è morto da solo, quel poveruomo del Micheli. Non è morto da solo? No. Non è morto da solo. E a me mi hanno detto Koppel non fare il rospo. Cos'è che vuol dire Koppel non fare il... non fare che? Non fare il rospo. Cosa significa? Ah, non lo so.
Impara a vivere. Vedi un po' di mondo. Adesso la voce del cane si è irrobustita. L'animale si tira su sulle zampe anteriori, si dà una leccatina al deretano, e prosegue: il mio nome è Persefone. Il mio primo nome, intendo. Ma al mio nuovo padrone, il signor Maltus, venne in mente di chiamarmi Bizet. Il perchè, non lo so. Niente a che vedere con la musica, comunque. Prima, fui a servizio da un tizio che ha la casa in collina. Uno pieno di soldi, che ha fatto fortuna coi waterclosed. Davvero: il creatore dei waterclosed, o qualcosa del genere, adesso non ricordo - ma uno pieno di boria, avresti dovuto sentirlo, il signore qui e il signore là, ah che gran figlio di puttana! Costui aveva il vizio di solleticare il suo fegato, dopo mangiato, tu sai a cosa mi riferisco... Un giorno ci rimase secco. Infarto. Neanche il tempo di posare sul tavolino di cristallo del salone l'ultimo cicchetto di vodka. Com'è che so che era proprio vodka? Perchè gliela leccai tutta, dopo. Dopo ch'era morto, intendo. Ne aveva dappertutto: sul bel gilet a quadrettoni scozzesi, sulle braghe color amaranto, perfino sulle scarpe di cuoio inglese. Ne leccai così tanta da ubriacarmi. Ci trovarono la mattina successiva, stesi tutti e due sul tappeto. Credevano che fossi morto anch'io. (Persefone qui si dà una grattatina sul ventre mollo e bianco, in corrispondenza della milza)
Impara a vivere, caro mio. Ad esempio: ti sei mai chiesto se vale la pena di diventare un Mediatore? No? Chi resterà a testimoniare del tempo corrotto, di quella cupa vibrazione da cui la terra è percorsa quando il cuore della fucìna si scalda, quando la fiamma del forno, dentro cui non è consentito neppure guardare, è perfettamente attenta a ogni alitare di corrente? Un Mediatore tra la fabbrica e gli uomini: pensaci. Tu sei troppo svagato, caro mio. Non vedi che nel cuore della città, sotto la crosta della terra, brucia una fiamma cento volte più alta e robusta? E la colata erompe, come al solito, anche questa sera dai fianchi candidi delle case - ma una colata d'acciaio incandescente, dico, bella e gioviale come quella che voi festeggiate giù in fabbrica, ogni giorno...
...questa è la vita, d'altronde. Non c'è da fare quella faccia. Semmai, scarseggiano i bocconcini di manzo, ecco. (Persefone si avvia, quasi strisciando sul ventre mollo, verso l'ingresso del negozio di Maltus). (Un altro fringuello, più tozzo e spiumato rispetto a quello, amatissimo, della gabbietta sul balcone, zampetta lì accanto: ha creduto a tutto quello che Bizet le ha raccontato? domanda il fringuello, emettendo un fischio stridulo. Non gli creda: tutte balle. Potrebbe sfornarne per ore e ore tutta la notte...)
VII.
DOVE KOPPEL SCOPRE CHE LA FABBRICA E' FATTA DI ACQUA.
Fino a quando? Fino a quando? Fino a quando? Sto perdendo tempo. Intendi tornare indietro? Oh sì sì. Beninteso, però, fino a quando non avrò portato a termine questo lavoro... Lo scatto della maniglia colpisce la mano tremante di Koppel, che non si aspettava un ritorno così repentino della molla. Il rumore secco dello scatto della porta che si apre sembra una frustata nel grembo vaporoso del silenzio. Segue un silenzio ancora più fondo. Ma per esempio quel tale che batte un bastone sulla ringhiera del ponte, al di là della strada. Vuole forse richiamare l'attenzione di tutto il quartiere? (Koppel adesso procede a tentoni. Entrando dal vialetto della mensa, cioè da sud, si ha tutta un'altra impressione della Fabbrica. Vista così, da dietro, con le ciminiere e il maestoso corpo principale dalla parte opposta, per giunta seminascosti dalla nebbia, non sembra nemmeno una Fabbrica). Sì, è probabilissimo che anche Domineiddio si sveglierà con quel frastuono. Fortuna che il Minico fa il custode per modo di dire.
Da questa parte, la Fabbrica non è che numeri. Tutte le baracche degli Spogliatoi e delle Rimesse mostrano una cifra intagliata nel legno scuro delle porte: da 1 a 9, in ordine crescente. Solo che, arrivati alla decima baracca, la numerazione ritorna daccapo: 1,2,3... Koppel non ha mai capito perchè. Anche i pezzi di lamiera, ben disposti nei grandi piazzali tra una baracca e l'altra, sono numerati: 3423 oppure 543 oppure 0098. Incomprensibili. Invece, passate tutte le baracche, oltre il grazioso vialetto che taglia di lungo l'ultimo piazzale, quando si accede alla zona principale, quella dei Capannoni e della Fonderia, si passa all'improvviso dai numeri alle lettere. I Capannoni vanno dalla A alla M: poi basta. Forse pensavano di farne di più, pensa Koppel, fino a impiegare tutte le lettere dell'alfabeto.
Avanti, marsc! Rintronamento! Il silenzio ha voci splendide che il vento porta di lontano. Toh, Walter. Che si fa di bello? Oppure: la fuliggine porta bene. La ridicolaggine è questo pantano che ti fa sprofondare fino alle caviglie. Domanda: da dove viene tutta quest'acqua? Sì, davvero tutto ormai è immerso nella penombra. Le porte dei Capannoni mandano sprazzi di luce quando la luna esce dalle nuvole. Il metallo è pulito, chiaro. Ma come arrivarci? Di qua la pala meccanica. E mezzo metro di fango. Di là una montagna di lastroni di ferro marcio. Roba che poi si butta. Alla fine, Koppel individua una scorciatoia. Deve però passare a ridosso della casupola del custode, e allora si fa piccolo piccolo, strisciando contro il muro che sa di umidità e di piscio di gatto. Quando arriva davanti al primo Capannone si ferma, attratto dal metallo biancolucido della serranda. Saranno quattro metri per tre, o forse di più. Questa sì che è una porta. Koppel estrae dalla tasca del giaccone un sacchetto di nylon. Sembra che dentro non vi sia niente, talmente è floscio. Difatti Koppel lo apre come si fa con i sacchetti vuoti che si vogliono riempire, cioè arrotolando i bordi verso l'esterno. Smette quando sente le dita tutte unte. Pesca una buona quantità di grasso con una mano piegata a cucchiaio, poi si inginocchia davanti alla serranda e comincia a spalmare il grasso nell'interstizio tra la porta e il binario su cui il battente deve scorrere. Ci mette un buon quarto d'ora prima di arrivare in fondo al binario. Ripete la stessa operazione su altre tre porte, finchè esaurisce tutta la quantità di grasso nel sacchetto. Al termine, sente un gran male alle ginocchia. Quanto tempo è passato? Un'ora, un'ora e mezza. Anche la mano gli duole. Si accovaccia contro un muro. Avranno cominciato le danze, alla Sorda. C'è stato un prete due sere fa che ha parlato per due ore di apocalissi e di segreti sessuali. Da qui non si sente niente. La notte, che per solito è così piena di porcherie, adesso è solo silenzio.
Sul muro di una Baracca, di fronte a dove sta lui adesso, ci sono alcune parole scritte col gesso giallo: pisciavacca, jeder culo, merda merda merda, Mussumeci in ginocchio da Madama, quovadis, un altro culo e poi una serie di nomi: Walter, Gioacchino detto Gèchi, Slobodan, Pavel, Iacca, Petra, Licausi, Ivan, e una triade di nomignoli Dioma, Giacca e Scriso ch'erano il padre e il figlio e lo spirito santo (scritto sotto, forse con la matita copiativa, in bella calligrafia).
All'improvviso, Koppel si accorge che ha la faccia tutta bagnata. L'acqua gli cola dai capelli, una specie di rigagnolo finissimo, freddo. Senza alzarsi, prova a tastare con le mani dietro di lui, sul muro: tutto bagnato. Difatti, anche il suo giaccone è mezzo fradicio. Si porta le dita bagnate sulla punta del naso: acqua e basta, sicuro. Non sa nemmeno di ruggine o di polvere, come la pioggia. No no, questa è acqua, e delle migliori. Koppel si alza in piedi: dentro nella poltiglia con tutta la scarpa! A ben guardare, tutta quell'acqua sembra non venire da nessuna parte. Impossibile, è ovvio. Koppel tende l'orecchio. Si sente uno scroscio, appena appena, ma distintamente, anche se adesso dalla casupola del custode escono i suoni intermittenti di un televisore acceso. Uno scroscio d'acqua allegro, come di torrentello di montagna. Difatti, fissando lo sguardo nella semioscurità, si riescono a intravvedere in controluce, illuminati da un raggio di luna, i mille fili argentei che colano dal tetto a cuspide della Baracca centrale e finiscono a terra, subito assorbiti dal terreno di torba scura e di ghiaia. Un fenomeno che par quasi che si alimenti da solo, cosicchè l'acqua, scomparendo nella terra, zampillerebbe da qualche altra parte poco distante in una specie di polla surgiva, risalirebbe i fianchi metallici dei Capannoni e delle Baracche, per poi ricadere di sotto, goccia a goccia, trattenuta appena dalle canalette di scolo. Forse sono le stesse costruzioni che trasudano, pensa Koppel, anche se poi deve ammettere a se stesso di non aver mai visto una lamiera che si imbeve di acqua come una spugna.
I libertini silenziosi misurano ogni lungo passo sul selciato: una puttana schizza fuori da una macchina, tutta agitata. Le sue urla arrivano fin qui, scortate da un alito di vento. Chi è che vola? Un pipistrello viene giù, fin quasi a terra. Koppel fa gli scongiuri. In piedi, senza curarsi troppo del fango sotto di lui, ha un pensiero fisso che gli molesta il cervello: da dove viene tutta quell'acqua? Mica ha piovuto. Gocce gocce gocce su per tutte 'ste lamiere...
Oilà! Salve! Si nota immediatamente che discende da nobile ramo: sarà anche una di quelle, ma sa farsi valere. Difatti, appena visibile attraverso il fitto fogliame del giardino che contorna la Fabbrica, sul marciapiede opposto del viale, la puttana respinge a calci e sputi le insistenze di un giovanotto biondo. Poi tutti scompaiono dentro un'altra vettura, e ritorna il silenzio.
Koppel cammina a tentoni nel buio, nuovamente calato dopo la scomparsa della luna, finchè raggiunge la parete di un'altra Baracca. Appoggia le mani e una guancia sulla lamiera: bagnata. Ormai, non ci sono più dubbi: c'è acqua dappertutto. Prova a tendere l'orecchio. Non c'è bisogno di molto sforzo, però: ora lo scroscio si sente ancora più chiaramente, è una vera e propria cascata, un rifluire di grosse onde sotto la superficie della terra, da qualche parte, lì sotto, certamente: una colata di acqua pura, per niente intaccata dalle scorie di ferro e dalle altre porcherie che escono dai Reparti di Produzione. E tutto intorno, le Baracche e i Capannoni e la Fabbrica intera, tutto sembra generato da quella corrente benedetta. L'acqua è il nutrimento di ogni cosa, si sa: ma in questo caso, sembra che la natura si sia spinta oltre, che l'intera materia si sia trasformata in una montagna d'acqua fresca e irrequieta...
VIII.
SOCIETA' ANONIMA (COMMIATO).
Settantatremila le ha pagate. Due blocchi di fango duro, adesso. Chissà che cosa direbbe sua madre, se gliele potesse vedere in questo momento. Intanto che cerca di sfilarsi le scarpe, Koppel pensa sorridendo a quanta fatica potrebbe costare farsi un'amante un po' dura d'orecchi. Ride di gusto, a pensarci. Una fresca brezza sulla riva. Koppel ci si stordisce. Chi diamine ha imbrattato con lo spray rosso uno dei pilastri del ponte di San Giorgio? L'acqua nera lambisce una grossa scritta: SOCIETA' ANONIMA, mentre il lampione sopra scodella un po' di luce. Passa un brutto rospo tra le foglie. Dove? Fà vedere... E' triste perdere i vecchi amici. Koppel avanza di qualche passo verso il fiume. L'acqua gli scorre a pochi metri di distanza. Scende placidamente, densa, una corrente di colore scuro scuro e per niente rumorosa.
Dev'essere che il novanta per cento del mondo è fatto di acqua. Sì sì: davvero. Novanta per cento, dove l'ha letto? Apparentemente, è una cosa ridicola. O forse c'è un significato? Dovrei andare dal dentista, pensa Koppel. Anche questo non ha senso. Le mie scarpe: le ho buttate. Mi ricordo.
Il centro di gravità, lì sotto, da qualche parte, si troverà. Pieno d'acqua, sicuro...
Qui il fiume è poco profondo, oh attento a non dimenticartene.
Vi saluto, amici rospi rimasti sulla terra. Che nominedomine non se ne approfitti...