Fluminalis (quando la distrazione era generale)
1. Laggiù sulla buona terra
– Qui dicono che hanno visto un lupo per le strade di Trento.
– Uno solo? A occhio, direi che ce n'è un branco...
– Non fare l'idiota, Stephen. Un lupo vero, cazzo. C'è scritto sul giornale. Da dove può essere arrivato? Non credevo che ce ne fossero ancora da queste parti.
– Non ci sono lupi sulle Alpi.
– Un lupo è un lupo. Non possono averlo confuso con un cane selvatico.
– Me lo immagino grasso e pieno di rogna. Un autentico cane selvatico capitalista.
– I lupi sono magri e hanno il muso affilato. E ululano. Chissà se questo ululava, qui non lo dicono. Sai che strizza però. Un lupo affamato mica scherza, è capace di...
– Hanno l'indole dominante, i lupi.
– ... sbranarti per strada mentre vai a comprarti le cicche. Arrivano e se ne vanno senza farsi vedere.
– Cosa ti sei fumato?
– Lasciali vivere, diceva mio nonno. Lasciali vivere.
– Alla sua epoca ce n'erano davvero. Adesso non ce ne sono più, Fabri. Non ci sono lupi sulle Alpi.
– Lasciali vivere, diceva. Mio nonno era stato un Kaiserjager, era stato anche a Vienna alla corte di Cecco Beppe, credo.
– Era al servizio di un dittatore. Gli faceva da cane da guardia, a quel cane feroce di un imperatore.
– Il Kaiser era un uomo d'onore. Il mio vecchio era un UOMO-D'ONORE!
– Ci credi davvero?
– È stato lui a insegnarmi la logica e il rigore che mi avrebbero condotto all'analisi anti-idealistica della società capitalista.
– Che cosa significa?
– ...
– CHE COSA CAZZO SIGNIFICA?
Fabrizio sbattè la porta del cesso con ostentata violenza. Il legno dello stipite gemette. Rimasto solo, Stephen ragionò mentre era seduto sulla tazza del water che in fin dei conti non era colpa sua. Fabri era un tassonomico. Poteva controllare la sua vita solo a patto di controllare la realtà. Scendere nei dettagli più stupidi gli valeva, forse, una specie di redenzione finale. Un sistema a punti: quanto più ti sei rotto i coglioni su una sfilza infinita di nomi e di cifre e di stupidissimi dettagli del cazzo, pensò Stephen sogghignando, tanto più ti sei meritato il tuo personale paradiso.
– Cosa c'è di più umano di un lupo? – gli gridò attraverso la porta. Per tutta risposta ottenne un rutto fenomenale. Stephen decise di lasciarlo perdere, anche perchè nel frattempo il pensiero del lupo a spasso per Trento gli aveva fatto venire in mente – per antinomia, certo – quell'idiota mercenario del Fragassi, e questo a sua volta gli provocò un formidabile stimolo alla defecazione.
Controlli la verità da una parte e poi ti scappa dall'altra. Decisamente, la vita non è un sistema statico. Perchè non era stato avvertito del tradimento? Lo aveva ammonito di starsene lontano dal comitato di fabbrica. Politicamente, Fragassi non era uno sprovveduto, ma non era nemmeno il tipo da accettare consigli. Viveva nella speranza che gli capitasse qualcosa di speciale e certe cose, era chiaro, se le andava a cercare: come quella di mettersi coi fascisti venduti ai padroni della fabbrica. Stephen gli aveva fatto capire con la massima chiarezza che il Movimento avrebbe preso dei provvedimenti severi nei suo confronti se avesse continuato a ignorare i suoi consigli. E poi, pensò Stephen, raccattando sul pavimento del bagno la copia di una rivista vecchia di tre anni che si era fregato quel pomeriggio alla biblioteca dell'Università, il compagno Fragassi è pur sempre uno a cui piacciono le donne!
Si sistemò sulla tazza del water ed emise un sibilo fra i denti. Perchè non era stato avvertito del tradimento? Qualcosa scappava via, fuori dal suo controllo. A parte quei deficienti di ragazzotti che sbavavano alle sue parole nei comitati autogestiti o nelle assemblee di facoltà e si riempivano la bocca dei suoi stessi paroloni come se fossero oro colato (questo Stephen lo odiava sopra a tutto il resto: come facevano a prenderlo sul serio? Dov'era finita la leggerezza, dov'era l'ironia, dove si era scaricata la potenza fascinatrice delle parole anti-autoritarie, dove accidenti si erano persi tutti?), c'erano gli altri, quelli del suo gruppo: qualcuno sapeva e taceva, di sicuro.
Dispiegò sulle ginocchia la rivista e fissò a lungo la foto che campeggiava su tutta la copertina: la Terra, o quello che ne rimaneva dopo essere stata smangiucchiata e imbevuta di buio cosmico, fotografata da dietro la Luna che rimaneva sul bordo inferiore dell'immagine. Stephen non aveva mai visto niente del genere. All'improvviso la sua mente si svuotò dei pensieri più pesanti. Quella foto lo ipnotizzava. Era come se avesse bucato anfetamina, ma non ne aveva preso. Al diavolo tutti, pensò mentre stringeva la rivista con tutte due le mani come se potessero strappargliela via, questa è roba devastante!
La mezza sfera colorata, percorsa da striature bianche e azzurre, che sembrava sbalzata fuori dalla copertina per effetto di chissà quale portentosa energia cosmica, era annegata nell'inchiostro nero. E l'altra metà? Risucchiata nell'universo? Noi da che parte stiamo, in questo momento? Chiaro, in quella sotto, alla luce: tutti gli altri, dove c'è notte adesso, sopra. Non gli era mai parso tanto evidente come fosse una fortuna sfacciata riuscire, ogni volta, a passare da sopra a sotto, dalla metà annegata nel nero a quella inondata di luce. Gli mancò il respiro. Vedersi da fuori, pensò. La Marsigliese e l'Internazionale comunista, roba che il suo vecchio si metteva sull'attenti solo a sentirne risuonare una nota, non erano niente al confronto, quanto a capacità di infliggerti la vertigine dell'infinito.
La didascalia spiegava che la foto riprendeva la Terra vista dall'Apollo 8, mentre il titolo che occupava la parte completamente nera sopra la mezza sfera terrestre annunciava entusiasticamente: L'INCREDIBILE ANNO 1968. Stephen immaginò il ragno metallico dell'Apollo 8 mentre girava attorno al pulsante di roccia pallida e veniva sparato fuori dall'altra parte, per effetto della piccola gravità lunare, come una biglia in un gigantesco juke-box. Fu quella la prima volta, lesse in un articolo interno, in cui degli esseri umani attraversarono le Fasce di Van Allen. Stephen non aveva la minima idea di cosa fossero, ma trovò tutto così meravigliosamente evocativo. Le Fasce di Van Allen. Qualcuno avrebbe dovuto fondare un complesso musicale con quel nome, come minimo.
In un altro articolo era riportato per intero il dialogo fra i tre membri dell'equipaggio, Frank Borman, William Alison Anders e James Lovell, quando videro per la prima volta la Terra che sbucava da dietro il dorso grigio della luna, che in quel momento – era la notte di Natale – l'Apollo 8 stava lentamente aggirando. Stephen immaginò la loro spavalda eccitazione. Quei tre robusti e allegri yankies avevano appena addomesticato il sogno dell'umanità: dovevano sentirlo su di sé, pensò, il respiro corto di tutti gli uomini che li precedettero nei secoli e nei millenni, dovevano sentirlo il respiro dell'umanità stupefatta, prepotentemente lanciata a rovesciare i pezzi sul tavolo e stravincere la propria partita con dio! E tutto questo esattamente nella notte di Natale: che fantastica sfacciataggine.
Anders o Borman: - Oh mio dio! Guarda laggiù. La Terra sta venendo fuori. Fantastico.
Borman o Anders : - Non scattare la foto. Non è previsto.
Borman: [Ridendo] - Hai una pellicola a colori Jim?
Anders: - Passami una pellicola a colori, presto...
Lovell: - È incredibile
Anders: - ... Muoviti. Fa presto!
Borman: - Incredibile
Lovell: - E laggiù?
Anders: - Passami una pellicola a colori. Quella con l’involucro colorato.
Anders: - Fa presto!
Borman: - Trovata?
Anders: - Sì, la sto cercando.
Lovell: - È la C 368.
Anders: - Qualunque pellicola, muoviti!
Lovell: - Eccola.
Anders: - Bene, pensavo l’avessimo dimenticata.
Lovell: - Ehi, ce l’ho qui!
Anders: - Fammi vedere da questo oblò. È molto più pulito.
Lovell: - Bill l’ho inquadrata. È pulito.
Anders: - Sì.
Borman: - Bene, scattane tante.
Lovell: - Scattane tante. Dai passa a me.
Anders: - Aspetta un attimo, fammi controllare le impostazioni della macchina. E calmiamoci tutti.
Borman: - Calma, Lovell.
Lovell: - Che scatto meraviglioso.
Lovell: - 250 a f/11.
Anders: - Okay.
Ehi, questa è una storia! si disse Stephen, schioccando la lingua. C'era anche una foto dei tre, ritratti ai piedi della scaletta dell'Apollo 8 con addosso le tute spaziali e ai piedi delle buffe calzature di colore arancione, grosse come pantofole invernali. Osservando i loro volti, trasalì: ce n'era uno che assomigliava sputato a suo padre. Lesse la didascalia. Doveva trattarsi di Franck Borman, il comandante. Stessa faccia quadrata, stempiata, su cui si insinuava un sorriso che la tagliava nella parte inferiore come un piccolo squarcio. Più che un sorriso, una smorfia di compiacimento. Dei tre, Borman era l'unico che non guardava in camera, ma in alto, da qualche parte, e forse anche questo doveva pur dire qualcosa. Come faceva sempre anche suo padre, pensò Stephen, Borman non stava sorridendo a nessun altro che non a se stesso.
Lesse ancora, pervaso da frenetica eccitazione. C'era il resoconto puntuale del viaggio dalla Terra alla Luna e ritorno. Stephen era particolarmente attratto dal ritorno. I ritorni, in genere, lo affascinavano più delle andate. C'è un che di strabiliante nel tornare sui propri passi. Si chiese se anche quei tre nel viaggio verso la Terra avessero osservato fra sé, come a lui capitava sempre ad ogni viaggio di ritorno, quanto sembrasse più breve il tragitto, sebbene fosse il medesimo dell'andata. E quanto più vividamente fosse destinato poi a rimanere impresso nella memoria rispetto al primo. Per Stephen quella era la Suprema Verità di Ogni Viaggio di Ritorno. Ciò che lesse però lo deluse molto. Il resoconto della missione si dilungava moltissimo sulla prima parte e liquidava il resto in poche righe:
All’uscita dalla nona orbita lunare, e prima di iniziare i controlli per la riaccensione del motore principale in previsione della Trans Earth Injection, TEI, i tre astronauti facevano gli auguri di buon Natale a tutti “laggiù sulla buona terra”. 89 ore, 28 minuti e 39 secondi dopo il lancio da Cape Kennedy, l’SPS veniva riacceso, come previsto e in perfetto orario, per cinque minuti e nove secondi. Apollo 8 cominciava il ritorno verso casa la mattina di Natale del 1968. Il viaggio era senza storia e si concludeva con l’ammaraggio, nei pressi dell’isola Christmas a sud dell’arcipelago della Hawaii e a meno di due miglia dalla CV10 Yorktown, l’alba (ora locale) del 27. Comel per l'Apollo 7, la capsula entrava in mare con la punta sott'acqua, ma anche in questo caso non sorgevano problemi a raddrizzarla mediante il gonfiamento degli airbags. Per motivi di sicurezza, i sommozzatori venivano inviati solo dopo il levar del sole, 43 minuti dopo l’ammaraggio.
Stephen fu molto colpito dall'augurio di buon natale che i tre rivolsero a noi di quaggiù, sulla buona terra. Un giorno suo padre, quando lui era ancora piccolo, avrà avuto cinque o sei anni, lo portò con sé in campagna, sulla collina a est di Trento. All'epoca da quelle parti era praticamente tutta campagna, tranne qualche casa sparsa. Anche la famiglia di Stephen aveva un pezzetto di campo, poca roba, coltivata a patate, e in mezzo c'era una albero, un solo alberello giovane e magro, probabilmente un melo. Suo padre lo depositò sotto l'albero e gli disse: stai qui e non muoverti finchè non torno. Ma Stephen aveva paura di stare lì da solo e protestò frignando, al che suo padre gli disse una cosa che lo fece meravigliare molto: devi stare qui a fare la guardia alla terra, e siccome suo figlio sembrava non capire tirò su una manciata di terra con la mano e gli urlò La terra è buona, la terra è buona!, così dicendo avvicinò la bocca al palmo della mano e ne mangiò un po', di quella terra grossa e nera che puzzava di merda: magari fece solo finta di farlo, ma la cosa destò comunque una grande impressione ai suoi occhi di bimbo.
La buona terra. Bisogna mangiarla, Borman, prima di poterne parlare! Pensò che ci fosse qualcosa di grande, di universale, perfino di angelico nel messaggio che l'equipaggio dell'Apollo 8 scelse per affidarlo alla storia; ma nello stesso tempo anche qualcosa di piccolo piccolo, di estremamente materiale e futile, come può esserlo il peccato di orgoglio (questo risaliva ai suoi studi liceali: la hybris, la prevaricazione della legge dell'armonia). Quei tre dallo spazio si stavano rivolgendo non ad altri uomini come loro, pensò, ma all'Umanità intera, a quella vivente oggi, a quella passata e a quella futura. In qualche modo, se ne tiravano fuori. Erano convinti di non appartenere più a questo mondo. Ehi, voi laggiù della Terra! Voialtri poveri umani prigionieri della vostra materialità, legati mani e piedi al vostro misero destino, sapeste come si sta quassù! Sì, forse quei tre avevano provato la stessa identica ebbrezza di Icaro. Sperduti messaggeri cosmici. Angeli, forse, dopo avere toccato con mano il ventre sacro dell'infinito. Ma messaggeri di che? Questo era il punto su cui valeva la pena riflettere un po', pensò Stephen, a cui ormai l'incombenza sfinterica era totalmente passata di mente. Nemmeno un familiare plo-plop sotto il suo culo e il relativo inevitabile spruzzo sulle natiche riuscirono a distogliere la sua attenzione. Era letteralmente annientato da quel turbinio di immagini cosmiche. I suoi pensieri si stavano allargando ben oltre il perimetro angusto e maleodorante del cesso e cominciavano a volare impalpabili, come i soffioni degli ippocastani sul viale sotto casa sua, nelle scintillanti sere di primavera.
L'esattezza perfetta di quella immagine lo commosse fin quasi alle lacrime. Lasciò cadere la rivista sul pavimento, fra le caviglie ancora imprigionate dal giogo dei pantaloni e delle mutande, e cercando un senso a tutto questo - mentre di sottecchi vide le sue nudità, senza peraltro vergognarsene affatto - si sentì tutt'uno con la potenza salvifica dello sciacquone.
[08.03.2013]
Fabri aveva un'erezione. Gliela si indovinava da sotto i pantaloni attillati. Quando Stephen uscì dal bagno lo trovò semi sdraiato sul letto, nello stanzone in cui oltre al suo c'erano altri quattro letti-letti e cinque o sei brandine, peraltro chiuse. Fabri indossava ancora la giacchetta a quadri vivaci, di almeno due taglie più piccola, abbottonata con un solo bottone. Sotto indossava la dolcevita d'ordinanza, rigorosamente nera. Si era appena fatto la barba? In ogni caso il mento era liscio, rosato. Invece la peluria sotto il naso, in forma di baffetti sparati, l'aveva lasciata. Aveva un corpo decente, Stephen ne era convinto: ma di una magrezza spaventosa. Disseppelliva il desiderio, per poi sfuggirgli. Stava leggendo un libro, ma quando vide Stephen lo chiuse di scatto e lo gettò per terra. Si stese di traverso al letto, le gambe larghe penzolanti e la nuca appoggiata sulla parete. Imitò un barbablu ghignante:
– Che c'hai? Hai visto la madonna?
Stephen gli gettò addosso la rivista con la foto della Terra annegata nel nero del cosmo.
– Ehi, che cavolo...
Solo a quel punto Stephen vide, lanciando un'occhiata fuori dalla finestra, che stava piovendo. Arricciò la bocca in una smorfia di disgusto. Immaginò la granella bianca del vialetto cessoso del cimitero che gli si appiccicava sotto le scarpe. Una sagoma di giovane donna, alta e secca, si ingrandì all'improvviso al suo fianco. – Faremo tardi. Tu non sei pronto, io non sono pronta. – disse Antonia. Non c'era traccia di severità nella sua voce. Forse solo un po' di impazienza. E siccome Stephen la guardò e basta, senza parlare, aggiunse: – Il funerale. Oggi pomeriggio. Cioè adesso. – Quando lui protestò ("Abbiamo un'ora abbondante") lei gli rigirò uno sguardo duro, reso ancora più implacabile dall'incavo degli occhi, nerissimi, che assieme alla linea dritta e sottile delle sopracciglie sorreggevano una fronte ampia, ossuta, lasciata libera dai corti e scuri capelli pettinati in parte, con la riga a sinistra, e fatti ricadere sulle tempie con una lieve arricciatura finale, alla moda degli anni Venti o Trenta. Ma tutto in lei era antico e rigoroso, di un'esattezza nordica o prussiana, così pensava Stephen. Non c'era verso, Antonia gli aveva sempre fatto l'effetto di un fortino circondato da mura, fossati e cannoni.
– Oh. – esclamò, forzando il tono sorpreso, come se l'avesse riconosciuta solo adesso. – Dove sono gli altri?
Erano andati tutti al Collettivo, lo informò Fabri. Stephen lo trafisse con un'occhiataccia, come a dire e tu che c'entri? Lui dovette accorgersene, perchè piagnucolò: – Ehi, per tua memoria, ti ricordo che sono tra i fondatori di questa Comune.
– Onore e gloria.
– Sì sì, amen. A-m-e-n, cazzo.
Stephen tagliò in obliquo lo stanzone e raggiunse la finestra, la spalancò e inalò l'aria gelida di quel pomeriggio di metà gennaio. Se fa così freddo perchè non nevica? pensò. Guardò in basso. La finestra dava su un enorme piazzale sterrato, contornato dai recenti caseggiati che in quegli anni spuntavano come i funghi alla periferia sud di Trento, strappando pezzi di terra alla campagna. Il piazzale aveva una grossa buca al centro. Stephen strizzò gli occhi e notò un mucchio di assi e di ferri ricurvi depositati sul bordo dello scavo, forse l'inizio di un nuovo cantiere. Le case intorno erano pressochè identiche a quella da cui si affacciava Stephen e al cui ultimo piano un anno fa avevano fondato la Comune Rosa Luxemburg con la stessa solennità cerimoniosa con cui, il 19 di ogni mese, lì dentro veniva ricordato l'eroico sacrificio di Jan Palach, o con la stessa puntuale commozione che riempiva i loro petti ogni domenica quando, nel corso della messa beat (ma loro preferivano chiamarla messa operaia), sostituivano la preghiera dei fedeli con il lungo elenco dei nomi dei soldati morti in Vietnam.
Uno scroscio di voci squillanti riempì il piazzale. Un gruppo di ragazzi aveva raggiunto la grossa buca al centro. Molti portavano la cartella sulle spalle e indossavano berretti, sciarpe di lana grossa e guanti. Le voci formavano piccole nubi di vapore davanti alle loro facce. Stephen notò una ragazzina, in coda a quella improvvisata processione, che aveva un cappottino nero sfiancato e molto corto, ben sopra le ginocchia, e ai piedi un paio di scarpe con i tacchi. La ragazza avrà avuto dodici o tredici anni al massimo, ma non era difficile indovinare sotto il cappottino il gonfiore acerbo di un seno, appena nascosto dalla stoffa pesante. Stephen la seguì per qualche istante con lo sguardo appuntato sulla sua schiena lontana, finchè la ragazza si confuse col gruppo. Ma anche dopo, continuò a cercarla fra le teste. Non gli fu difficile ritrovarla, perchè la ragazza era più alta di tutti gli altri. Una lunga e affilata lama di sensualità, pensò Stephen, che subito dopo si vergognò di quel pensiero. Avrebbe potuto perdonarlo? Poteva sperare nella sua comprensione?
Sopra la buca era stato tirato un grande telo sorretto da due pali, a formare una specie di tettoia. I ragazzi vi si accalcarono sotto, allineandosi sul contorno dello scavo per ripararsi dalla pioggia. Guardavano tutti dentro il ventre scuro della buca, in silenzio. Uno fumava. La ragazza dal cappottino nero si fece passare la cicca e aspirò un paio di boccate.
Perché il Fragassi non aveva prima scritto a lui? Gli sembrava di avere a che fare con una specie di infiltrato. Infiltrato, ripetè mentalmente, lasciando che la parola gli suonasse nella testa per capire l'effetto che faceva. IN-FIL..
– Si vede ancora l'impronta per terra. – Dietro di lui Antonia era una voce un po' roca, adesso. Si girò. Vide che armeggiava con uno spinello francamente enorme. Le fece posto sul davanzale della finestra, accanto a lui.
IN-FIL-TRA...
– Che impronta?
– L'impronta del corpo del tuffatore folle – sbottò Antonia, accigliata.
...TRA-TO. Infiltrato. Era una parola scura e densa di presagi. Un frullo d'ali di corvi.
Visto dall'alto, pensò Stephen, il piazzale era un enorme superficie lunare bucherellata di piccoli crateri. La terra era bianca e solo sui bordi, delimitati da uno striminzito vialetto di piastre di porfido che correva lungo quasi tutto il perimetro, a ferro di cavallo, il fango smangiava quel biancore in una serie irregolare di macchie scure e di pozzanghere. Una di queste, sul lato sinistro, quello lasciato libero dai casermoni che si affacciava sulla strada, era grande quanto una piscina, a occhio. Il sole pallido di quel gelido gennaio non sarebbe mai bastato per asciugarla, calcolò Stephen, mentre una zaffata di maria lo investì in piena faccia.
– Merda! – esclamò, tossendo.
– Sì. Ma di quella buona.
Antonia gli cinse la spalla con un braccio e avvicinò la faccia alla sua. Odorava di sudore. Ma c'era anche un profumo sullo sfondo, forse imprigionato fra i suoi capelli. – Il funerale – gli sussurrò piano, come una mamma. – Faremo tardi.
Stephen passò in rassegna la porzione di piazzale alla loro sinistra, perpendicolare al balcone della camera a fianco. Osservò più volte il balcone e il selciato di sotto, alternativamente. Poi lo vide: un alone grigio appena distinguibile fra le buche, come se in quel punto la ghiaia candida fosse stata spazzata via accuratamente fino a formare una macchia grande più o meno come un grosso cane.
– Per essere l'impronta di un corpo umano è un po' piccola – disse, sforzandosi di apparire distaccato.
– Boh, credo che la polizia abbia ripulito tutto l'altra sera, dopo gli accertamenti.
Forse cadendo da un quarto piano va a finire che ci si accartoccia, pensò Stephen. E se invece il povero Walter, durante la caduta dal balcone, si fosse per così dire ristretto? Ma chi o che cosa l'avrebbero reso così vulnerabile all'aria?
[19.03.2013]
– C'era del sangue o cosa...?
– Non lo so, ma credo proprio di si. Tu che dici, dopo un volo di... Quanti metri saranno?
– Venti.
– Così tanti?
– Venti. A occhio. Ma cosa dice la polizia, che è stato cosa?
– Che si è buttato di sotto no?
– Mmm. Però ci hanno messo quattro giorni a dare il via libera alla sepoltura.
– Già. Che gli hai fatto al Fragassi?
Stephen si girò a fissarla in faccia, peraltro seminascosta dall'ennesima nube di fumo. Cercò di mostrarsi sinceramente stupito.
– Che gli ho fatto io? Niente. Stamattina era davanti alla fabbrica? Mi hanno detto che non c'era nessuno dei nostri a volantinare.
– Non ci è andato. Ha detto che non stava bene. Ma so che è entrato coi crumiri. La ronda degli operai non è riuscita a beccarlo.
– Non c'era il picchetto?
Antonia sospirò, riavviando un ciuffo di capelli. Era bella? Stephen non avrebbe saputo dirlo. Ci fu una strana pausa carica di tensione.
Poi Antonia parlò. Gli disse (sussurrando piano per non farsi sentire da quellolà che li guardava da sotto in su, sdraiato sul divano con i piedi puntati in alto sul muro) che da quando avevano trovato la bomba davanti al tribunale, appena due giorni prima, la città era cambiata. Stava succedendo qualcosa. Non era solo che quella mattina avevano annullato il corteo degli studenti. Era che lei si sentiva che non l'avrebbero più fatto quel corteo. Non ci sarebbe stato più nessun corteo, se lo sentiva.
– Non dire cazzate – tagliò corto Stephen, ma non era molto sicuro di crederci. – Fammi fare un tiro. – Antonia obbedì. Quando Stepehen aspirò, sentì la canna crepitare. Vide la mezzasfera terrestre annegata nell'inchiostro del vuoto cosmico dietro la testa di Antonia, ascendere e compiere un rapido giro sul soffitto. – Avevo una mezza idea di disertare – disse. – Disertore: capisci? L'estate prossima mi scade l'esonero di studio. Ehi, questa a casa mia la chiamano merda! – Tossì così forte che gli sembrò di raschiare via il catrame dai polmoni, come quando fresano (si dice così? non ne era sicuro) le strade per togliere lo strato di asfalto.
– Pensi che il Fragassi faccia il doppio gioco? – La voce di Antonia era una serpentina di suoni caldi.
– Non ha mangiato la buona terra. Sì che lo penso. Ne sono convinto, cazzo. Che ore sono?
– Tardissimo. E devo ancora prepararmi. Ascolta... – La ragazza gli prese una mano. La tenne fra le sue, calde. Non c'era niente dentro quel gesto: era come se tenesse fra i suoi palmi un pezzo di corteccia o una lastra di marmo, uguale. Stephen vide la sua squadra che preparava i ta-tze-bao e li issava sulle cancellate della fabbrica, insultati dai dirigenti, e sui cartelli c'era scritto grande grande LAGGIU' SULLA BUONA TERRA e sentiva i portelloni di metallo dei reparti che facevano dong-dong chiudendosi e dall'alto un corpo inanimato saettò seguendo una parabola tesa, come se precipitasse da un quarto piano e c'era una musica che lo accompagnava che sembrava una sonata di Brahms, potente, Walter santo cielo aiutaci, tutto sembrava coglierlo impreparato in quel volo, perfino l'aria che lo spolpava man mano che si avvicinava a terra, e lui ebbe appena il tempo di dire, sporgendo come sempre il labbro inferiore, con quel suo accento toscano e gli acuti toni nasali: Compagni, buona sera. Poi il tonfo. Fu uno scandalo per le pantegane del piazzale.
– Ascolta – ripetè Antonia. – L'ho pensato l'altro ieri, quando abbiamo saputo della bomba eccetera. Walter se li è portati tutti dietro, nel suo volo. Capisci?
Un cane ululò dal piazzale di sotto. Stephen si girò: lo scavo al centro era deserto, i ragazzini se ne erano andati tutti. E non sarebbero tornati, pensò. Fabrizio schioccò la lingua allegramente, mettendosi a sedere sul divano:
– Te l'avevo detto che c'è un lupo qui in giro.
Tutto l'autobus li guarda come si guarderebbero due marziani. Antonia, che ha trovato su una rivista un reportage sul "formidabile Funerale dell'Hippy del '67 a San Francisco", ha provveduto per se stessa a una maniacale vestizione, com'è nella sua natura, documentandosi puntigliosamente. Anche se gli hippies non le sono mai piaciuti, in quest'occasione sente di essere parte delle libere tribù di Haight Ashbury. Canta: If you're going to San Francisco, be sure to wear some flowers in your hair. Ha un vestito lungo fino ai piedi, rosa e bianco, molto largo, su cui ha attaccato numerosi ritagli di giornali, per lo più fotografie a colori o grosse lettere. Le lettere dovrebbero formare la parola D-E-A-T-H, ma solo ora Antonia si rende conto con grande disappunto che sembrano invece disposte alla rinfusa. Sopra ha un cappotto militare da uomo, che Iozef Kreisky, un compagno della comune, le ha portato direttamente dalla Polonia. E sopra ancora, siccome è freddo, uno scialle di lana nero. In testa ha un vistoso cappello a cilindro di cartone, nero anch'esso. Stephen, quale segno del lutto, indossa un soprabito bianco di un paio di taglie più grande, che ha trovato sotto casa in un cassonetto della spazzatura. Sparge per terra pezzetti di stagnola.
(continua)
– Qui dicono che hanno visto un lupo per le strade di Trento.
– Uno solo? A occhio, direi che ce n'è un branco...
– Non fare l'idiota, Stephen. Un lupo vero, cazzo. C'è scritto sul giornale. Da dove può essere arrivato? Non credevo che ce ne fossero ancora da queste parti.
– Non ci sono lupi sulle Alpi.
– Un lupo è un lupo. Non possono averlo confuso con un cane selvatico.
– Me lo immagino grasso e pieno di rogna. Un autentico cane selvatico capitalista.
– I lupi sono magri e hanno il muso affilato. E ululano. Chissà se questo ululava, qui non lo dicono. Sai che strizza però. Un lupo affamato mica scherza, è capace di...
– Hanno l'indole dominante, i lupi.
– ... sbranarti per strada mentre vai a comprarti le cicche. Arrivano e se ne vanno senza farsi vedere.
– Cosa ti sei fumato?
– Lasciali vivere, diceva mio nonno. Lasciali vivere.
– Alla sua epoca ce n'erano davvero. Adesso non ce ne sono più, Fabri. Non ci sono lupi sulle Alpi.
– Lasciali vivere, diceva. Mio nonno era stato un Kaiserjager, era stato anche a Vienna alla corte di Cecco Beppe, credo.
– Era al servizio di un dittatore. Gli faceva da cane da guardia, a quel cane feroce di un imperatore.
– Il Kaiser era un uomo d'onore. Il mio vecchio era un UOMO-D'ONORE!
– Ci credi davvero?
– È stato lui a insegnarmi la logica e il rigore che mi avrebbero condotto all'analisi anti-idealistica della società capitalista.
– Che cosa significa?
– ...
– CHE COSA CAZZO SIGNIFICA?
Fabrizio sbattè la porta del cesso con ostentata violenza. Il legno dello stipite gemette. Rimasto solo, Stephen ragionò mentre era seduto sulla tazza del water che in fin dei conti non era colpa sua. Fabri era un tassonomico. Poteva controllare la sua vita solo a patto di controllare la realtà. Scendere nei dettagli più stupidi gli valeva, forse, una specie di redenzione finale. Un sistema a punti: quanto più ti sei rotto i coglioni su una sfilza infinita di nomi e di cifre e di stupidissimi dettagli del cazzo, pensò Stephen sogghignando, tanto più ti sei meritato il tuo personale paradiso.
– Cosa c'è di più umano di un lupo? – gli gridò attraverso la porta. Per tutta risposta ottenne un rutto fenomenale. Stephen decise di lasciarlo perdere, anche perchè nel frattempo il pensiero del lupo a spasso per Trento gli aveva fatto venire in mente – per antinomia, certo – quell'idiota mercenario del Fragassi, e questo a sua volta gli provocò un formidabile stimolo alla defecazione.
Controlli la verità da una parte e poi ti scappa dall'altra. Decisamente, la vita non è un sistema statico. Perchè non era stato avvertito del tradimento? Lo aveva ammonito di starsene lontano dal comitato di fabbrica. Politicamente, Fragassi non era uno sprovveduto, ma non era nemmeno il tipo da accettare consigli. Viveva nella speranza che gli capitasse qualcosa di speciale e certe cose, era chiaro, se le andava a cercare: come quella di mettersi coi fascisti venduti ai padroni della fabbrica. Stephen gli aveva fatto capire con la massima chiarezza che il Movimento avrebbe preso dei provvedimenti severi nei suo confronti se avesse continuato a ignorare i suoi consigli. E poi, pensò Stephen, raccattando sul pavimento del bagno la copia di una rivista vecchia di tre anni che si era fregato quel pomeriggio alla biblioteca dell'Università, il compagno Fragassi è pur sempre uno a cui piacciono le donne!
Si sistemò sulla tazza del water ed emise un sibilo fra i denti. Perchè non era stato avvertito del tradimento? Qualcosa scappava via, fuori dal suo controllo. A parte quei deficienti di ragazzotti che sbavavano alle sue parole nei comitati autogestiti o nelle assemblee di facoltà e si riempivano la bocca dei suoi stessi paroloni come se fossero oro colato (questo Stephen lo odiava sopra a tutto il resto: come facevano a prenderlo sul serio? Dov'era finita la leggerezza, dov'era l'ironia, dove si era scaricata la potenza fascinatrice delle parole anti-autoritarie, dove accidenti si erano persi tutti?), c'erano gli altri, quelli del suo gruppo: qualcuno sapeva e taceva, di sicuro.
Dispiegò sulle ginocchia la rivista e fissò a lungo la foto che campeggiava su tutta la copertina: la Terra, o quello che ne rimaneva dopo essere stata smangiucchiata e imbevuta di buio cosmico, fotografata da dietro la Luna che rimaneva sul bordo inferiore dell'immagine. Stephen non aveva mai visto niente del genere. All'improvviso la sua mente si svuotò dei pensieri più pesanti. Quella foto lo ipnotizzava. Era come se avesse bucato anfetamina, ma non ne aveva preso. Al diavolo tutti, pensò mentre stringeva la rivista con tutte due le mani come se potessero strappargliela via, questa è roba devastante!
La mezza sfera colorata, percorsa da striature bianche e azzurre, che sembrava sbalzata fuori dalla copertina per effetto di chissà quale portentosa energia cosmica, era annegata nell'inchiostro nero. E l'altra metà? Risucchiata nell'universo? Noi da che parte stiamo, in questo momento? Chiaro, in quella sotto, alla luce: tutti gli altri, dove c'è notte adesso, sopra. Non gli era mai parso tanto evidente come fosse una fortuna sfacciata riuscire, ogni volta, a passare da sopra a sotto, dalla metà annegata nel nero a quella inondata di luce. Gli mancò il respiro. Vedersi da fuori, pensò. La Marsigliese e l'Internazionale comunista, roba che il suo vecchio si metteva sull'attenti solo a sentirne risuonare una nota, non erano niente al confronto, quanto a capacità di infliggerti la vertigine dell'infinito.
La didascalia spiegava che la foto riprendeva la Terra vista dall'Apollo 8, mentre il titolo che occupava la parte completamente nera sopra la mezza sfera terrestre annunciava entusiasticamente: L'INCREDIBILE ANNO 1968. Stephen immaginò il ragno metallico dell'Apollo 8 mentre girava attorno al pulsante di roccia pallida e veniva sparato fuori dall'altra parte, per effetto della piccola gravità lunare, come una biglia in un gigantesco juke-box. Fu quella la prima volta, lesse in un articolo interno, in cui degli esseri umani attraversarono le Fasce di Van Allen. Stephen non aveva la minima idea di cosa fossero, ma trovò tutto così meravigliosamente evocativo. Le Fasce di Van Allen. Qualcuno avrebbe dovuto fondare un complesso musicale con quel nome, come minimo.
In un altro articolo era riportato per intero il dialogo fra i tre membri dell'equipaggio, Frank Borman, William Alison Anders e James Lovell, quando videro per la prima volta la Terra che sbucava da dietro il dorso grigio della luna, che in quel momento – era la notte di Natale – l'Apollo 8 stava lentamente aggirando. Stephen immaginò la loro spavalda eccitazione. Quei tre robusti e allegri yankies avevano appena addomesticato il sogno dell'umanità: dovevano sentirlo su di sé, pensò, il respiro corto di tutti gli uomini che li precedettero nei secoli e nei millenni, dovevano sentirlo il respiro dell'umanità stupefatta, prepotentemente lanciata a rovesciare i pezzi sul tavolo e stravincere la propria partita con dio! E tutto questo esattamente nella notte di Natale: che fantastica sfacciataggine.
Anders o Borman: - Oh mio dio! Guarda laggiù. La Terra sta venendo fuori. Fantastico.
Borman o Anders : - Non scattare la foto. Non è previsto.
Borman: [Ridendo] - Hai una pellicola a colori Jim?
Anders: - Passami una pellicola a colori, presto...
Lovell: - È incredibile
Anders: - ... Muoviti. Fa presto!
Borman: - Incredibile
Lovell: - E laggiù?
Anders: - Passami una pellicola a colori. Quella con l’involucro colorato.
Anders: - Fa presto!
Borman: - Trovata?
Anders: - Sì, la sto cercando.
Lovell: - È la C 368.
Anders: - Qualunque pellicola, muoviti!
Lovell: - Eccola.
Anders: - Bene, pensavo l’avessimo dimenticata.
Lovell: - Ehi, ce l’ho qui!
Anders: - Fammi vedere da questo oblò. È molto più pulito.
Lovell: - Bill l’ho inquadrata. È pulito.
Anders: - Sì.
Borman: - Bene, scattane tante.
Lovell: - Scattane tante. Dai passa a me.
Anders: - Aspetta un attimo, fammi controllare le impostazioni della macchina. E calmiamoci tutti.
Borman: - Calma, Lovell.
Lovell: - Che scatto meraviglioso.
Lovell: - 250 a f/11.
Anders: - Okay.
Ehi, questa è una storia! si disse Stephen, schioccando la lingua. C'era anche una foto dei tre, ritratti ai piedi della scaletta dell'Apollo 8 con addosso le tute spaziali e ai piedi delle buffe calzature di colore arancione, grosse come pantofole invernali. Osservando i loro volti, trasalì: ce n'era uno che assomigliava sputato a suo padre. Lesse la didascalia. Doveva trattarsi di Franck Borman, il comandante. Stessa faccia quadrata, stempiata, su cui si insinuava un sorriso che la tagliava nella parte inferiore come un piccolo squarcio. Più che un sorriso, una smorfia di compiacimento. Dei tre, Borman era l'unico che non guardava in camera, ma in alto, da qualche parte, e forse anche questo doveva pur dire qualcosa. Come faceva sempre anche suo padre, pensò Stephen, Borman non stava sorridendo a nessun altro che non a se stesso.
Lesse ancora, pervaso da frenetica eccitazione. C'era il resoconto puntuale del viaggio dalla Terra alla Luna e ritorno. Stephen era particolarmente attratto dal ritorno. I ritorni, in genere, lo affascinavano più delle andate. C'è un che di strabiliante nel tornare sui propri passi. Si chiese se anche quei tre nel viaggio verso la Terra avessero osservato fra sé, come a lui capitava sempre ad ogni viaggio di ritorno, quanto sembrasse più breve il tragitto, sebbene fosse il medesimo dell'andata. E quanto più vividamente fosse destinato poi a rimanere impresso nella memoria rispetto al primo. Per Stephen quella era la Suprema Verità di Ogni Viaggio di Ritorno. Ciò che lesse però lo deluse molto. Il resoconto della missione si dilungava moltissimo sulla prima parte e liquidava il resto in poche righe:
All’uscita dalla nona orbita lunare, e prima di iniziare i controlli per la riaccensione del motore principale in previsione della Trans Earth Injection, TEI, i tre astronauti facevano gli auguri di buon Natale a tutti “laggiù sulla buona terra”. 89 ore, 28 minuti e 39 secondi dopo il lancio da Cape Kennedy, l’SPS veniva riacceso, come previsto e in perfetto orario, per cinque minuti e nove secondi. Apollo 8 cominciava il ritorno verso casa la mattina di Natale del 1968. Il viaggio era senza storia e si concludeva con l’ammaraggio, nei pressi dell’isola Christmas a sud dell’arcipelago della Hawaii e a meno di due miglia dalla CV10 Yorktown, l’alba (ora locale) del 27. Comel per l'Apollo 7, la capsula entrava in mare con la punta sott'acqua, ma anche in questo caso non sorgevano problemi a raddrizzarla mediante il gonfiamento degli airbags. Per motivi di sicurezza, i sommozzatori venivano inviati solo dopo il levar del sole, 43 minuti dopo l’ammaraggio.
Stephen fu molto colpito dall'augurio di buon natale che i tre rivolsero a noi di quaggiù, sulla buona terra. Un giorno suo padre, quando lui era ancora piccolo, avrà avuto cinque o sei anni, lo portò con sé in campagna, sulla collina a est di Trento. All'epoca da quelle parti era praticamente tutta campagna, tranne qualche casa sparsa. Anche la famiglia di Stephen aveva un pezzetto di campo, poca roba, coltivata a patate, e in mezzo c'era una albero, un solo alberello giovane e magro, probabilmente un melo. Suo padre lo depositò sotto l'albero e gli disse: stai qui e non muoverti finchè non torno. Ma Stephen aveva paura di stare lì da solo e protestò frignando, al che suo padre gli disse una cosa che lo fece meravigliare molto: devi stare qui a fare la guardia alla terra, e siccome suo figlio sembrava non capire tirò su una manciata di terra con la mano e gli urlò La terra è buona, la terra è buona!, così dicendo avvicinò la bocca al palmo della mano e ne mangiò un po', di quella terra grossa e nera che puzzava di merda: magari fece solo finta di farlo, ma la cosa destò comunque una grande impressione ai suoi occhi di bimbo.
La buona terra. Bisogna mangiarla, Borman, prima di poterne parlare! Pensò che ci fosse qualcosa di grande, di universale, perfino di angelico nel messaggio che l'equipaggio dell'Apollo 8 scelse per affidarlo alla storia; ma nello stesso tempo anche qualcosa di piccolo piccolo, di estremamente materiale e futile, come può esserlo il peccato di orgoglio (questo risaliva ai suoi studi liceali: la hybris, la prevaricazione della legge dell'armonia). Quei tre dallo spazio si stavano rivolgendo non ad altri uomini come loro, pensò, ma all'Umanità intera, a quella vivente oggi, a quella passata e a quella futura. In qualche modo, se ne tiravano fuori. Erano convinti di non appartenere più a questo mondo. Ehi, voi laggiù della Terra! Voialtri poveri umani prigionieri della vostra materialità, legati mani e piedi al vostro misero destino, sapeste come si sta quassù! Sì, forse quei tre avevano provato la stessa identica ebbrezza di Icaro. Sperduti messaggeri cosmici. Angeli, forse, dopo avere toccato con mano il ventre sacro dell'infinito. Ma messaggeri di che? Questo era il punto su cui valeva la pena riflettere un po', pensò Stephen, a cui ormai l'incombenza sfinterica era totalmente passata di mente. Nemmeno un familiare plo-plop sotto il suo culo e il relativo inevitabile spruzzo sulle natiche riuscirono a distogliere la sua attenzione. Era letteralmente annientato da quel turbinio di immagini cosmiche. I suoi pensieri si stavano allargando ben oltre il perimetro angusto e maleodorante del cesso e cominciavano a volare impalpabili, come i soffioni degli ippocastani sul viale sotto casa sua, nelle scintillanti sere di primavera.
L'esattezza perfetta di quella immagine lo commosse fin quasi alle lacrime. Lasciò cadere la rivista sul pavimento, fra le caviglie ancora imprigionate dal giogo dei pantaloni e delle mutande, e cercando un senso a tutto questo - mentre di sottecchi vide le sue nudità, senza peraltro vergognarsene affatto - si sentì tutt'uno con la potenza salvifica dello sciacquone.
[08.03.2013]
Fabri aveva un'erezione. Gliela si indovinava da sotto i pantaloni attillati. Quando Stephen uscì dal bagno lo trovò semi sdraiato sul letto, nello stanzone in cui oltre al suo c'erano altri quattro letti-letti e cinque o sei brandine, peraltro chiuse. Fabri indossava ancora la giacchetta a quadri vivaci, di almeno due taglie più piccola, abbottonata con un solo bottone. Sotto indossava la dolcevita d'ordinanza, rigorosamente nera. Si era appena fatto la barba? In ogni caso il mento era liscio, rosato. Invece la peluria sotto il naso, in forma di baffetti sparati, l'aveva lasciata. Aveva un corpo decente, Stephen ne era convinto: ma di una magrezza spaventosa. Disseppelliva il desiderio, per poi sfuggirgli. Stava leggendo un libro, ma quando vide Stephen lo chiuse di scatto e lo gettò per terra. Si stese di traverso al letto, le gambe larghe penzolanti e la nuca appoggiata sulla parete. Imitò un barbablu ghignante:
– Che c'hai? Hai visto la madonna?
Stephen gli gettò addosso la rivista con la foto della Terra annegata nel nero del cosmo.
– Ehi, che cavolo...
Solo a quel punto Stephen vide, lanciando un'occhiata fuori dalla finestra, che stava piovendo. Arricciò la bocca in una smorfia di disgusto. Immaginò la granella bianca del vialetto cessoso del cimitero che gli si appiccicava sotto le scarpe. Una sagoma di giovane donna, alta e secca, si ingrandì all'improvviso al suo fianco. – Faremo tardi. Tu non sei pronto, io non sono pronta. – disse Antonia. Non c'era traccia di severità nella sua voce. Forse solo un po' di impazienza. E siccome Stephen la guardò e basta, senza parlare, aggiunse: – Il funerale. Oggi pomeriggio. Cioè adesso. – Quando lui protestò ("Abbiamo un'ora abbondante") lei gli rigirò uno sguardo duro, reso ancora più implacabile dall'incavo degli occhi, nerissimi, che assieme alla linea dritta e sottile delle sopracciglie sorreggevano una fronte ampia, ossuta, lasciata libera dai corti e scuri capelli pettinati in parte, con la riga a sinistra, e fatti ricadere sulle tempie con una lieve arricciatura finale, alla moda degli anni Venti o Trenta. Ma tutto in lei era antico e rigoroso, di un'esattezza nordica o prussiana, così pensava Stephen. Non c'era verso, Antonia gli aveva sempre fatto l'effetto di un fortino circondato da mura, fossati e cannoni.
– Oh. – esclamò, forzando il tono sorpreso, come se l'avesse riconosciuta solo adesso. – Dove sono gli altri?
Erano andati tutti al Collettivo, lo informò Fabri. Stephen lo trafisse con un'occhiataccia, come a dire e tu che c'entri? Lui dovette accorgersene, perchè piagnucolò: – Ehi, per tua memoria, ti ricordo che sono tra i fondatori di questa Comune.
– Onore e gloria.
– Sì sì, amen. A-m-e-n, cazzo.
Stephen tagliò in obliquo lo stanzone e raggiunse la finestra, la spalancò e inalò l'aria gelida di quel pomeriggio di metà gennaio. Se fa così freddo perchè non nevica? pensò. Guardò in basso. La finestra dava su un enorme piazzale sterrato, contornato dai recenti caseggiati che in quegli anni spuntavano come i funghi alla periferia sud di Trento, strappando pezzi di terra alla campagna. Il piazzale aveva una grossa buca al centro. Stephen strizzò gli occhi e notò un mucchio di assi e di ferri ricurvi depositati sul bordo dello scavo, forse l'inizio di un nuovo cantiere. Le case intorno erano pressochè identiche a quella da cui si affacciava Stephen e al cui ultimo piano un anno fa avevano fondato la Comune Rosa Luxemburg con la stessa solennità cerimoniosa con cui, il 19 di ogni mese, lì dentro veniva ricordato l'eroico sacrificio di Jan Palach, o con la stessa puntuale commozione che riempiva i loro petti ogni domenica quando, nel corso della messa beat (ma loro preferivano chiamarla messa operaia), sostituivano la preghiera dei fedeli con il lungo elenco dei nomi dei soldati morti in Vietnam.
Uno scroscio di voci squillanti riempì il piazzale. Un gruppo di ragazzi aveva raggiunto la grossa buca al centro. Molti portavano la cartella sulle spalle e indossavano berretti, sciarpe di lana grossa e guanti. Le voci formavano piccole nubi di vapore davanti alle loro facce. Stephen notò una ragazzina, in coda a quella improvvisata processione, che aveva un cappottino nero sfiancato e molto corto, ben sopra le ginocchia, e ai piedi un paio di scarpe con i tacchi. La ragazza avrà avuto dodici o tredici anni al massimo, ma non era difficile indovinare sotto il cappottino il gonfiore acerbo di un seno, appena nascosto dalla stoffa pesante. Stephen la seguì per qualche istante con lo sguardo appuntato sulla sua schiena lontana, finchè la ragazza si confuse col gruppo. Ma anche dopo, continuò a cercarla fra le teste. Non gli fu difficile ritrovarla, perchè la ragazza era più alta di tutti gli altri. Una lunga e affilata lama di sensualità, pensò Stephen, che subito dopo si vergognò di quel pensiero. Avrebbe potuto perdonarlo? Poteva sperare nella sua comprensione?
Sopra la buca era stato tirato un grande telo sorretto da due pali, a formare una specie di tettoia. I ragazzi vi si accalcarono sotto, allineandosi sul contorno dello scavo per ripararsi dalla pioggia. Guardavano tutti dentro il ventre scuro della buca, in silenzio. Uno fumava. La ragazza dal cappottino nero si fece passare la cicca e aspirò un paio di boccate.
Perché il Fragassi non aveva prima scritto a lui? Gli sembrava di avere a che fare con una specie di infiltrato. Infiltrato, ripetè mentalmente, lasciando che la parola gli suonasse nella testa per capire l'effetto che faceva. IN-FIL..
– Si vede ancora l'impronta per terra. – Dietro di lui Antonia era una voce un po' roca, adesso. Si girò. Vide che armeggiava con uno spinello francamente enorme. Le fece posto sul davanzale della finestra, accanto a lui.
IN-FIL-TRA...
– Che impronta?
– L'impronta del corpo del tuffatore folle – sbottò Antonia, accigliata.
...TRA-TO. Infiltrato. Era una parola scura e densa di presagi. Un frullo d'ali di corvi.
Visto dall'alto, pensò Stephen, il piazzale era un enorme superficie lunare bucherellata di piccoli crateri. La terra era bianca e solo sui bordi, delimitati da uno striminzito vialetto di piastre di porfido che correva lungo quasi tutto il perimetro, a ferro di cavallo, il fango smangiava quel biancore in una serie irregolare di macchie scure e di pozzanghere. Una di queste, sul lato sinistro, quello lasciato libero dai casermoni che si affacciava sulla strada, era grande quanto una piscina, a occhio. Il sole pallido di quel gelido gennaio non sarebbe mai bastato per asciugarla, calcolò Stephen, mentre una zaffata di maria lo investì in piena faccia.
– Merda! – esclamò, tossendo.
– Sì. Ma di quella buona.
Antonia gli cinse la spalla con un braccio e avvicinò la faccia alla sua. Odorava di sudore. Ma c'era anche un profumo sullo sfondo, forse imprigionato fra i suoi capelli. – Il funerale – gli sussurrò piano, come una mamma. – Faremo tardi.
Stephen passò in rassegna la porzione di piazzale alla loro sinistra, perpendicolare al balcone della camera a fianco. Osservò più volte il balcone e il selciato di sotto, alternativamente. Poi lo vide: un alone grigio appena distinguibile fra le buche, come se in quel punto la ghiaia candida fosse stata spazzata via accuratamente fino a formare una macchia grande più o meno come un grosso cane.
– Per essere l'impronta di un corpo umano è un po' piccola – disse, sforzandosi di apparire distaccato.
– Boh, credo che la polizia abbia ripulito tutto l'altra sera, dopo gli accertamenti.
Forse cadendo da un quarto piano va a finire che ci si accartoccia, pensò Stephen. E se invece il povero Walter, durante la caduta dal balcone, si fosse per così dire ristretto? Ma chi o che cosa l'avrebbero reso così vulnerabile all'aria?
[19.03.2013]
– C'era del sangue o cosa...?
– Non lo so, ma credo proprio di si. Tu che dici, dopo un volo di... Quanti metri saranno?
– Venti.
– Così tanti?
– Venti. A occhio. Ma cosa dice la polizia, che è stato cosa?
– Che si è buttato di sotto no?
– Mmm. Però ci hanno messo quattro giorni a dare il via libera alla sepoltura.
– Già. Che gli hai fatto al Fragassi?
Stephen si girò a fissarla in faccia, peraltro seminascosta dall'ennesima nube di fumo. Cercò di mostrarsi sinceramente stupito.
– Che gli ho fatto io? Niente. Stamattina era davanti alla fabbrica? Mi hanno detto che non c'era nessuno dei nostri a volantinare.
– Non ci è andato. Ha detto che non stava bene. Ma so che è entrato coi crumiri. La ronda degli operai non è riuscita a beccarlo.
– Non c'era il picchetto?
Antonia sospirò, riavviando un ciuffo di capelli. Era bella? Stephen non avrebbe saputo dirlo. Ci fu una strana pausa carica di tensione.
Poi Antonia parlò. Gli disse (sussurrando piano per non farsi sentire da quellolà che li guardava da sotto in su, sdraiato sul divano con i piedi puntati in alto sul muro) che da quando avevano trovato la bomba davanti al tribunale, appena due giorni prima, la città era cambiata. Stava succedendo qualcosa. Non era solo che quella mattina avevano annullato il corteo degli studenti. Era che lei si sentiva che non l'avrebbero più fatto quel corteo. Non ci sarebbe stato più nessun corteo, se lo sentiva.
– Non dire cazzate – tagliò corto Stephen, ma non era molto sicuro di crederci. – Fammi fare un tiro. – Antonia obbedì. Quando Stepehen aspirò, sentì la canna crepitare. Vide la mezzasfera terrestre annegata nell'inchiostro del vuoto cosmico dietro la testa di Antonia, ascendere e compiere un rapido giro sul soffitto. – Avevo una mezza idea di disertare – disse. – Disertore: capisci? L'estate prossima mi scade l'esonero di studio. Ehi, questa a casa mia la chiamano merda! – Tossì così forte che gli sembrò di raschiare via il catrame dai polmoni, come quando fresano (si dice così? non ne era sicuro) le strade per togliere lo strato di asfalto.
– Pensi che il Fragassi faccia il doppio gioco? – La voce di Antonia era una serpentina di suoni caldi.
– Non ha mangiato la buona terra. Sì che lo penso. Ne sono convinto, cazzo. Che ore sono?
– Tardissimo. E devo ancora prepararmi. Ascolta... – La ragazza gli prese una mano. La tenne fra le sue, calde. Non c'era niente dentro quel gesto: era come se tenesse fra i suoi palmi un pezzo di corteccia o una lastra di marmo, uguale. Stephen vide la sua squadra che preparava i ta-tze-bao e li issava sulle cancellate della fabbrica, insultati dai dirigenti, e sui cartelli c'era scritto grande grande LAGGIU' SULLA BUONA TERRA e sentiva i portelloni di metallo dei reparti che facevano dong-dong chiudendosi e dall'alto un corpo inanimato saettò seguendo una parabola tesa, come se precipitasse da un quarto piano e c'era una musica che lo accompagnava che sembrava una sonata di Brahms, potente, Walter santo cielo aiutaci, tutto sembrava coglierlo impreparato in quel volo, perfino l'aria che lo spolpava man mano che si avvicinava a terra, e lui ebbe appena il tempo di dire, sporgendo come sempre il labbro inferiore, con quel suo accento toscano e gli acuti toni nasali: Compagni, buona sera. Poi il tonfo. Fu uno scandalo per le pantegane del piazzale.
– Ascolta – ripetè Antonia. – L'ho pensato l'altro ieri, quando abbiamo saputo della bomba eccetera. Walter se li è portati tutti dietro, nel suo volo. Capisci?
Un cane ululò dal piazzale di sotto. Stephen si girò: lo scavo al centro era deserto, i ragazzini se ne erano andati tutti. E non sarebbero tornati, pensò. Fabrizio schioccò la lingua allegramente, mettendosi a sedere sul divano:
– Te l'avevo detto che c'è un lupo qui in giro.
Tutto l'autobus li guarda come si guarderebbero due marziani. Antonia, che ha trovato su una rivista un reportage sul "formidabile Funerale dell'Hippy del '67 a San Francisco", ha provveduto per se stessa a una maniacale vestizione, com'è nella sua natura, documentandosi puntigliosamente. Anche se gli hippies non le sono mai piaciuti, in quest'occasione sente di essere parte delle libere tribù di Haight Ashbury. Canta: If you're going to San Francisco, be sure to wear some flowers in your hair. Ha un vestito lungo fino ai piedi, rosa e bianco, molto largo, su cui ha attaccato numerosi ritagli di giornali, per lo più fotografie a colori o grosse lettere. Le lettere dovrebbero formare la parola D-E-A-T-H, ma solo ora Antonia si rende conto con grande disappunto che sembrano invece disposte alla rinfusa. Sopra ha un cappotto militare da uomo, che Iozef Kreisky, un compagno della comune, le ha portato direttamente dalla Polonia. E sopra ancora, siccome è freddo, uno scialle di lana nero. In testa ha un vistoso cappello a cilindro di cartone, nero anch'esso. Stephen, quale segno del lutto, indossa un soprabito bianco di un paio di taglie più grande, che ha trovato sotto casa in un cassonetto della spazzatura. Sparge per terra pezzetti di stagnola.
(continua)